Per tornare a “credere”
di Mario Bozzi Sentieri

In tempi di facile, troppo scontata, “secolarizzazione”, interrogarsi sull’essenza del Sacro può apparire un’operazione eccentrica. In realtà cogliere il permanere di una religiosità profonda, dai tratti e dai rituali “pagani”, rende palese una domanda spirituale tutt’altro che secondaria, ancorché esterna alle tradizionali istituzioni religiose. È la grande contraddizione di questi tempi, marcati da una post modernità in cui passato e presente si miscelano, nell’attesa del futuro. In questo grande “gioco” della memoria, fatta di riti che paiono immortali e di condivise passioni collettive, la domanda religiosa conferma la sua forza, laddove invece le chiese sono vuote, e ad emergere è quello che Mircea Eliade (in Il sacro e il profano) individuava come il “bisogno dell’uomo religioso di riprodurre indefinitamente gli stessi gesti esemplari”, riattualizzando il tempo mitico. Questa domanda mitica passa, oggi, attraverso le forme diffuse di un Sacro che riafferma – per dirla con Rudolf Otto (Il Sacro) – il suo essere “tremendum” e “fascinans” e lo fa attraverso manifestazioni popolari di devozione, in cui le stesse figure dei Santi assumono i tratti magmatici, di appartenenze, aspirazioni, bisogni non sempre contenibili entro i confini dottrinari della cattolicità. Nel suo recente saggio L’Italia dei Miracoli. Storie di santi, magia e misteri (Cortina Editore) Marino Niola, antropologo, docente presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, ne offre un’efficace rassegna, in grado di coniugare simultaneamente figure e simboli, apparentemente distanti tra loro. Ecco allora San Gennaro, il vero Dio di Napoli – come scrisse Alexandre Dumas, accanto a San Rocco, “il divino infettivologo”; la manna di San Nicola, che fa di Bari uno dei grandi centri della medicina soprannaturale; Santa Rosalia, il lato femminile della devozione, quello della vicinanza, della confidenza, dell’indulgenza; il Salento fra il morso della tarantola ed il rimorso di Medea in fuga verso Leuca; Padre Pio, il santo più evocato, “un autentico uomo della provvidenza populista, che ha sempre parlato alla pancia del Paese” – come scrive Niola. E poi i riti meno noti: quello dei serpenti di Cocullo, sull’appennino abruzzese; quello del re del bosco praticato da tempi immemorabili sulle sponde del lago di Nemi; le dee acquatiche della Valtiberina. Feste, simboli, culti collettivi, diversi tra loro, ci riconsegnano il senso di appartenenze senza tempo, in cui il Sacro irrompe nel quotidiano, giocando un ruolo essenziale nello scompaginare la routine della vita ordinaria, mentre ritorna la comunità, grande assente nel tempo dell’io. E non serve Ferdinand Tönnies a farcene comprendere l’articolazione sociologica. Brillano di luce propria i resti di tradizioni insieme cristiane e pagane. L’invito è a comprenderne l’essenza spirituale, il loro valore senza tempo. Magari per provare a ritrovare un diverso “senso della vita”, antico, ma sempre attuale. E da lì una possibile “via d’uscita” rispetto alle inadeguatezze della contemporaneità. Ogni paese, ogni festa, esprime una singolare miscela religiosa e profana, fatta di Madonne e di riti propiziatori, di fuochi celebrativi e di Santi Patroni, di oroscopi e di Fede, di bancarelle e di incenso. La religiosità non scompare, ma vive su un piano diverso. A ben guardare, è il “sentimentalismo religioso”, ricco di esteriorità e di intime certezze, ad uscire vincente, zuccheroso come certi dolciumi, stupefacente come gli immancabili fuochi d’artificio, avvolgente come può essere una folla che si sente accomunata da “visioni” condivise. Non è però solo folklore, riti, vestiti e cibo. È senso di memorie e di comunità, da “rileggere” nella loro essenza con spirito nuovo. È volontà di appartenenza e di identità fuori dalle soffocati strette delle esasperazioni economicistiche. Il “tempo del Sacro” – si può dire citando Jacques Le Goff (Tempo della Chiesa e tempo del mercante) – è infatti diverso dal “tempo del mercante”, il tempo del materialismo e del produttivismo, nel quale la festa tradizionale è sostituita dal “tempo libero”, una mera “pausa” in cui l’assenza dal lavoro si coniuga con il consumo di massa ed individuale. In questo senso il tempo libero si differenzia dal tempo delle feste, proprio dell’antico stile di vita, allorquando – come scriveva Edgard Morin (L’industria culturale) – “le feste, ripartite lungo tutto il corso dell’anno, costituivano il tempo delle riunioni collettive, dei riti sacri, delle cerimonie, della rimozione dei tabù, delle baldorie e dei banchetti”. Nell’Italia dei santuari, dei mille borghi e delle mille culture tradizionali “ritrovare”, la Festa è l’occasione per coltivare la memoria ed insieme andare all’essenza del Sacro e dei valori che esso evoca, individuandovi una sorta di “riserva spirituale” per le singole persone e per le comunità. Culto laico ed insieme religioso, per la capacità che ha di unire il sacro con il profano, il tempo della festa fa emergere una volontà di condivisione e di gioiosa partecipazione, che pareva soffocata dai meccanismi del consumismo di massa. Franco Cardini, a conclusione di I giorni del sacro. Il libro delle Feste, un libro uscito nel 1983, ma tuttora ricco di suggestioni, invitava a “risacralizzare l’esistenza, e quella quotidiana non meno di quella festiva”, vedendo nella Festa un “modello di come si sapeva stare insieme, di come si sapevano esprimere certi valori universalmente condivisi”. È un invito da non fare cadere. Magari sull’onda di riti e feste capaci di intrecciare celebrazione identitaria del presente e liturgia della memoria. Per non dimenticare e per riprendere consapevolezza di una Cultura senza tempo. È un lampo, forse. Ma, sapendolo cogliere, può aiutare a riflettere su ciò che siamo veramente, come popolo, e su ciò che potremmo essere, consapevoli che la battaglia del futuro è oggi, sempre più, battaglia della memoria, di una memoria profonda.