di Mario Bozzi Sentieri

Presentando, presso la Gnam (Galleria Nazionale d’Arte Moderna) di Roma, la mostra “Tolkien. Uomo, Professore, Autore”, il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha espresso l’idea di volere organizzare un analogo evento dedicato ad Antonio Gramsci, aggiungendo, a margine della conferenza stampa: “Quando la cultura è alta non ha una dimensione politica, io nei miei scritti cito spesso anche Antonio Gramsci perché lo considero un grande autore del ‘900 o anche il profilo ideologico di Norberto Bobbio che nelle sue pagine riporta una frase nella critica di Benedetto Croce ‘dobbiamo tornare all’aria aperta’, per molti decenni si è cercato di togliere l’aria mentre invece dobbiamo respirare, essere plurali ed essere aperti”. Di questa voglia di pluralità ed apertura è peraltro intessuta una ricca (ed oggi scarsamente considerata) stagione culturale, quella della “Nuova Destra”, nella quale proprio l’opera di Tolkien, insieme a quella di Gramsci, ebbe un valore centrale. Ha recentemente dichiarato (in un’intervista a “Robinson”) Marco Tarchi, protagonista di quella stagione ed oggi – per sua stessa ammissione – intellettualmente un “cane sciolto”: “Sotto le bandiere di quel fantasy (Il Signore degli Anelli, ndr) si riunirono i lettori più irregolari, coloro che vedevano nel romanzo la critica alla società mercantile e al tempo stesso il richiamo al mito”. Da quell’esperienza letteraria nacquero, tra il 1977 ed il 1980, i “Campi Hobbit”, veri e propri “laboratori di pensiero alternativo – puntualizza Tarchi – in un momento in cui il clima degli anni di piombo e gli effetti del terrorismo avevano pesantemente inquinato e drammatizzato la politica”. Lungo quel percorso – non sembri una provocazione – Tolkien e Gramsci presero per mano quella giovane pattuglia intellettuale, impegnata a declinare – da destra – una nuova idea di cultura. Erano giusto quarantacinque anni fa , allorquando, tra il maggio ed il giugno 1978, il “Secolo d’Italia” fu percorso da un ampio ed appassionato dibattito sulle nuove strategie culturali. Tutto era nato da un’ intervista di Alain de Benoist, in Italia ancora poco conosciuto, pubblicata, con grande risalto, sulla pagina culturale del “quotidiano del Msi-Dn”. De Benoist era l’uomo del giorno in Francia, grazie al successo di Vu de droite, una vasta antologia critica delle idee contemporanee, pubblicata dalle Edizioni Copernic. A dieci anni dal mitico ’68 parigino, il neomarxismo era segnato da una crisi profonda, da qui l’invito a ripensare, “da destra”, l’ampio spettro delle conoscenze contemporanee (dalla biologia alla microfisica, passando per la geopolitica, la psicopedagogia e la storiografia moderna) offrendo un’interpretazione nuova ed anticonformista del movimento delle idee , ancorché intellettualmente rigorosa. L’idea di fondo – specificava de Benoist – era “portare il dibattito non più su un terreno politico nel senso stretto sempre più privo di significato, ma sul terreno propriamente meta politico della concezione del mondo – cioè della visione e della percezione dei rapporti degli uomini e dell’universo – e dei rapporti degli uomini tra loro”. Eravamo agli albori di quella che sarebbe stata la stagione della “Nuova Destra”. Ovviamente non potevamo saperlo. L’idea di spostare il dibattito e l’impegno dal terreno politico a quello metapolitico era però già chiara. Un po’ perché – proprio in quegli anni d’emergenza – si era fatta strada la strategia delle “iniziative parallele” , impegnata a costruire, proprio sul terreno metapolitico e sociale, una presenza “alternativa” (si pensi – da questo punto di vista – all’esperienza di una rivista femminile, come “Eowyn” – un nome tutto tolkieniano – a “Dimensione Ambiente”, testata impegnata sul terreno dell’ecologia, ma anche della biopolitica e dell’etologia, o ancora a “L’Altro Regno”, bimestrale dedicato al fenomeno della fantasy e della letteratura fantascientifica). Un po’ perché avevamo letto Gramsci, certamente attraverso le sollecitazioni della Nouvelle Droite francese, ma non solo. All’epoca Gramsci era spesso inserito nei programmi universitari. Difficile sfuggirgli per chi frequentava Lettere o Scienze Politiche. Lo dovevamo studiare, pur non condividendone certe idee di fondo. Ma sulla sua metodologia, sulla distinzione tra “società civile” e “società politica”, sull’idea di “egemonia culturale”, premessa per la conquista di uno stabile potere politico, niente da dire, ne restammo affascinati, iniziando – da parte nostra – a tirare le conseguenze. E provammo a “sentirci nuovi”, proprio partendo anche da quelle intuizioni di fondo, magari coniugandole con certe ascendenze tradizionaliste e poi verificandole, sul piano delle analisi e dell’impegno metapolitico, grazie all’esempio offerto da de Benoist e soci. Si parlò allora e lungo tutti gli Anni Ottanta di “gramscismo di destra”, creando un po’ di fraintendimenti (a destra) e più di qualche indignata reazione (a sinistra). La linea comunque era stata tracciata, al punto che lo stesso nome di Gramsci entrò (1994) nelle prime tesi della neonata Alleanza Nazionale, accanto a quello di Giovanni Gentile. Ricordiamo tutto questo non certo per cullarci nell’ennesima rievocazione generazionale, quanto per invitare a non perdere di vista un percorso e dunque per non stupirsi più di tanto dei possibili recuperi, da destra, anche da parte di una destra di governo, dell’intellettuale sardo, magari affiancandolo ad un conservatore come Tolkien. Gramsci ci appartiene, perché appartiene all’ideologia italiana. Ed ugualmente lo sentiamo un po’ nostro perché ci ha aiutato nel nostro peregrinare intellettuale, sulle vie dell’egemonia culturale, invitandoci a dare sostanza all’azione politica. Ieri con la destra all’opposizione. Oggi al governo. Una lezione da non dimenticare e da declinare spregiudicatamente.