di Mario Bozzi Sentieri

Non è facile parlare ai giovani, ma ancora di più non è facile parlare di giovani. C’è il rischio della retorica, dei “buoni sentimenti” sempre pronti a fare capolino, anche nelle analisi più attrezzate. C’è il rischio di “demonizzare” o “santificare” le giovani generazioni, rinchiudendole in aree protette, da cui solo il tempo e le necessità della vita le faranno uscire. I giovani “preoccupano” piuttosto che destare attenzione. Invadono le cronache giornalistiche e le analisi a buon mercato del sociologismo televisivo, piuttosto che sollecitare risposte non banali. Niente di nuovo – sia chiaro: la gioventù è un’età di passaggio, i giovani di oggi hanno però un percorso più “lungo e complicato” verso l’età adulta. E’ il “segno dei tempi”, nella misura in cui la persistente “questione giovanile” deriva da una preoccupazione di fondo per una fase della vita sempre più complessa sul piano identitario, delle opportunità e qualità del lavoro, del protagonismo sociale più in generale. Non a caso si dilatano notevolmente i tempi di uscita dalla casa dei genitori, di formazione di una famiglia propria, della prima procreazione. Nel Mezzogiorno il 71,5% dei 18-34enni nel 2022 vive in famiglia (64,3% nel Nord Italia; 49,4% nell’Ue a 27), con un forte aumento rispetto al 2001 (62,2%). La propensione alla nuzialità e alla procreazione si riduce, e tali eventi si posticipano ovunque. Nel 2021, l’età media al (primo) matrimonio degli italiani è stata di circa 36 anni per lo sposo (32 nel 2004) e 33 per la sposa (29 nel 2004); quella della prima procreazione per le donne è in continuo aumento (32,4 anni contro 30,5 nel 2001). Ciò rischia di interferire con il ciclo biologico della fertilità e di alimentare l’“inverno demografico”, mentre aumenta sempre più la lontananza tra giovani generazioni e le istituzioni, i partiti, lo stesso associazionismo. Non è “lotta al sistema” – come fu un tempo. E’ disinteresse verso i tradizionali strumenti di intermediazione politica e sociale. Vista l’emergenza l’Unione europea ha perfino predisposto una strategia ad hoc, per far sì che essi “si impegnino e diventino cittadini che partecipano attivamente alla democrazia e alla società”. I giovani sono anche un target prioritario del PNRR, unitamente alla parità di genere e al Mezzogiorno. Il Piano sottolinea come “la questione giovanile in Italia emerge nel confronto con gli altri Paesi europei (…). La mancanza di prospettive certe e di opportunità di sviluppo si manifesta sia nell’elevato tasso di emigrazione giovanile sia nei (…) ritardi nelle competenze (…). Le azioni del Piano sono volte a recuperare il potenziale delle nuove generazioni e a (…) favorire il loro protagonismo all’interno della società”. I piani d’intervento sono importanti, ma non sufficienti. Oltre essi ci vuole qualcosa di più. C’è bisogno di “liberare” la questione giovanile dalla stretta soffocante dell’ emergenza, trovando la lucidità delle interpretazioni di prospettiva e quindi il coraggio di proposte di ampio respiro, in grado di sgombrare il campo da ogni retorica giovanilistica, che sa tanto di…vecchio. Per andare nel profondo della moderna “questione giovanile”. A ridosso del ’68, Ugo Spirito, in un saggio dedicato alle giovani generazioni (L’avvenire dei giovani, Sansoni, 1972), saggio che appare in alcuni parti datato, ma che certamente è tutt’altro che banale, pone l’accento sulla contrapposizione tra “individuo sociale” e “individuo privato”, vedendo nel primo il “prodotto” delle trasformazioni del sapere in sapere specializzato e quindi della nascita dello “specialista”, collaboratore di altri specialisti. In questo passaggio dall’individuo tradizionale all’individuo sociale, Spirito immagina “una convivenza tra eguali, in cui la voce di ognuno si fonde con quelle degli altri, in una comunanza di azioni che dà significato a tutti, indipendentemente dal valore dei singoli”. Erano i primi Anni Settanta, anni in cui – citiamo sempre il filosofo del “problematicismo” – si “affacciano le prime richieste di una preparazione collettiva, di votazione unica, di esame di gruppo e via dicendo”, anni di protesta, del “no puro e semplice che si esprime con forme estremistiche e distruttive”. Oggi, a cinquant’anni da quelle analisi, è il loro ribaltamento che può aiutarci a cogliere i nuovi elementi costitutivi di un autentico “avvenire per i giovani”. Il passato è l’egalitarismo massificante, l’annullamento sociale, il rifiuto anarchico. Le domande dei giovani d’oggi e quindi gli elementi costitutivi del loro avvenire sono la meritocrazia, l’affermazione di sé, la partecipazione creativa. E’ rispetto a questa sensibilità, emergente nelle pieghe del vissuto giovanile, che occorre iniziare a dare risposte, risposte culturali, sociali, politiche. Ad ogni giovane che voglia costruire il proprio avvenire (e quindi quello nazionale) occorre allora garantire il diritto di vedere riconosciuti i propri meriti, cosa che non è, fino ad oggi, avvenuto, vuoi per una errata concezione dell’uguaglianza, vuoi per gli “inquinamenti” partitici e “baronali” che spesso hanno provocato una selezione alla rovescia. Il riconoscimento dei meriti è il primo passo per favorire il libero sviluppo della personalità. Tramontato il tempo dell’”individuo sociale”, caro a certa cultura macchinistico-industrialista, è la mobilità sociale, l’aggiornamento permanente, l’innovazione a segnare la nuova “filosofia del lavoro”. Ed è dunque rispetto a questa nuova filosofia che è necessario riparametrare una cultura ed i modelli organizzativi che intorno ad essa vanno emergendo. Questo introduce un nuovo dato: la partecipazione. Essere partecipi, fare parte, sentirsi parte di un progetto, è la grande aspettativa giovanile, un’aspettativa che – sia chiaro – non ha niente di massificante, non può essere comprata – come tenta di fare la sinistra – a colpi di sussidi di disoccupazione o di buoni sconto per i concerti musicali, ma che si coniuga con il diritto alla meritocrazia, con il riconoscimento dei talenti individuali, con la pienezza di un avvenire autentico. Un discorso di qualità dunque e di valore, quello che bisogna sapere leggere tra le pieghe del vissuto giovanile, molto più concreto di certi stagionati guru e, nello stesso tempo, pronto ad accettare le sfide del cambiamento, intorno a cui si giocano le sorti del Paese. A questo tipo di “domande sociali” bisogna dare risposte concrete. Non basta cioè conservare l’esistente, né realizzare interventi parziali. E’ necessario piuttosto determinare un nuovo quadro di garanzie, capace di mettere in primo piano come elementi essenziali degli attuali standard occupazionali la formazione, la professionalità, la volontà innovativa, la partecipazione creativa alla vita aziendale ed ancora le garanzie previdenziali, il salario “premiante” la produttività, il reale accesso allo “Stato sociale”. Ed ancora: è necessario avviare un nuovo processo d’integrazione sociale per le giovani generazioni, che parta dai territori, attraverso forum giovanili, capaci di dare voce e rappresentanza alle giovani generazioni. Occorre – in definitiva – “mobilitare” le giovani generazioni, creando aspettative e riconoscendo loro un ruolo sociale. “La gioventù di un grande Paese – diceva Abel Bonnard – in tempi felici riceve esempi, in tempi di crisi li dà”. Mai come oggi c’è bisogno di “esempi” (culturali, sociali, politici) in grado di saldare vecchie e giovani generazioni, facendo uscire l’Italia dalla crisi in cui anche un giovanilismo senza avvenire l’ha fatta impantanare.