Dopo le parole di Ignazio Visco a Torino
di Mario Bozzi Sentieri

“Ci sono stati benefici, ma ci sono stati anche costi. Non è stata una marcia trionfale questo cambiamento straordinario della globalizzazione”: parole di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, alla terza giornata del Festival internazionale dell’economia di Torino, che quest’anno ha avuto per tema proprio “Ripensare la globalizzazione”. Dopo decenni di retorica globalista, l’idea di “Ripensare la globalizzazione” è già un bel passo in avanti. Fino a poco tempo fa l’argomento era tabù, emarginato nelle “cronache minori” della cultura identitaria, consapevole, da tempo, dei limiti di un “mondo aperto”, senza limiti, controlli, compensazioni tra i diversi Paesi produttori. Con il risultato che – dati alla mano – a pagare si sono trovati contemporaneamente i lavoratori dei vecchi Paesi industrializzati (costretti a subire la concorrenza selvaggia, a basso costo, dei Paesi emergenti) ed i lavoratori delle nuove potenze industriali (con tutele contrattuali al ribasso e salari ben lontani dagli standard occidentali). Alla fuoriuscita dalla povertà di 1,3 miliardi di persone (una bella cifra che però è poca cosa se si considera la somma della popolazione di Cina, India ed Africa) ha fatto riscontro, nel “nostro” mondo, una contrazione delle classi medie e la crescita delle disuguaglianze. Secondo l’ultimo Global Wealth Report del Credit Suisse Research Institute, nel 2021 il 48,7% della ricchezza mondiale è risultato nelle mani del solo 1,2%, mentre il livello di disuguaglianza globale tra paesi, sembra essere superiore a quello esistente a cavallo tra il 1800 e il 1900. Il risultato – sempre parole del Governatore della Banca d’Italia – è che “abbiamo perso vantaggi comparati, la possibilità di occupare persone in produzioni che ora sono le catene globali del valore tra più Paesi, a danno di chi era specializzato ma non formato per affrontare un futuro incerto e diverso. Non ci sono stati investimenti dal lato politico per compensare quella formazione. Contemporaneamente i cambiamenti negativi ci sono stati, come quello del clima, che è associato a questa attività produttiva”. Intanto però qualcuno se n’è già accorto da tempo, prendendo le doverose contromisure. Giusto un anno fa la Casa Bianca ha pubblicato un rapporto in tema di “Creazione di catene distributive resilienti, rilancio dell’industria statunitense e incentivi alla crescita su vasta scala”, nel quale si poteva leggere: “La pandemia e i connessi scompensi economici hanno rivelato vulnerabilità strutturali delle nostre catene di distribuzione. Le severe ripercussioni che l’emergenza Covid-19 ha impresso all’andamento della domanda di numerosi prodotti medici, compresi i farmaci essenziali, hanno causato danni al sistema sanitario degli Stati Uniti. Nella misura in cui la popolazione ha dovuto lavorare e studiare da casa, si è creata una scarsità globale di chip semiconduttori che ha colpito, fra gli altri, i prodotti dei settori automobilistico, industriale e delle comunicazioni”. Passando dalle parole ai fatti gli Stati Uniti sono così arrivati a stanziare miliardi di dollari per spingere le aziende americane, operanti nel settore semiconduttori (oggi prodotti all’80% in Asia) e a costruire fabbriche negli States, con il risultato di riportare a casa 348.000 posti di lavoro. Le aziende italiane non sembrano immuni da questa tendenza. Marchi d’eccellenza del made in Italy stanno rivedendo le loro scelte relativamente ai processi di globalizzazione. Le cause? Il costo dei trasporti a distanza (con l’aumento dei noli), le incertezze determinate dal conflitto tra Russia ed Ucraina, le politiche restrittive di Pechino a fronte dell’emergenza Covid, la riscoperta della maggiore qualità del personale specializzato in Italia, le nuove frontiere della digitalizzazione. In sostanza: maggiore rapidità nei trasporti e negli approvvigionamenti, un migliore controllo sulla produzione, più alti standard nell’innovazione, sia a livello creativo che produttivo, ma anche il volere confermare – come dichiarano i vertici di molte aziende del settore della moda – il valore di italianità del marchio. Rispetto a questo quadro in movimento si può allora dire che non tutto è perduto nella sfida antiglobalista. Importante, in questa fase di passaggio, politico e non solo, è cogliere le trasformazioni in atto ed “attrezzarsi” di conseguenza. A partire certamente dalle domande delle aziende, che richiedono pronte risposte dai territori, ma soprattutto, a livello di Sistema Paese, rispetto alle grandi questioni della modernizzazione, delle infrastrutture, dei tempi della burocrazia, della formazione e degli approvvigionamenti energetici. In generale si tratta di fare crescere una nuova consapevolezza produttivistica per l’Italia, declinando ragioni metapolitiche (identititarie) e buon governo, laddove la stagione della “deglobalizzazione” invita a riportare al centro delle economie il valore nazionale insieme a quello dell’etica collettiva e quindi di un’autentica socialità, rispetto a cui fissare priorità d’obiettivi e quindi investimenti. Significativa – in questa ottica – la recente azione del Governo sul “made in Italy”, finalizzata a valorizzare le nostre eccellenze e a favorire la crescita delle competenze necessarie, fino ad istituire un liceo ad hoc. La questione è anche “culturale”, nella misura in cui c’è bisogno di una mobilitazione generale dell’intero Sistema Paese, finalmente consapevole che in gioco ci sono i più vasti destini nazionali, oltre che quelli economici e sociali di una parte. Del resto l’Idea di Nazione non si esprime esclusivamente nella difesa di una memoria, quanto anche in una rinnovata solidarietà patriottica, costruita sull’appartenenza territoriale, sulla comunità di destino, sulla tutela/valorizzazione delle produzioni, sulle competenze. Oggi più che mai il vero patriottismo è anche produttivistico o non è. Ed i processi di “deglobalizzazione” sembrano andare in questa direzione. Esserne coscienti è il primo passo per uscire vincenti, dopo il trentennio globalista, da questa nuova sfida.