di Mario Bozzi Sentieri

Tra le righe del decreto lavoro del primo maggio c’è un norma, poco considerata dai mass media, relativa agli stipendi dei top manager delle aziende partecipate, da cui vale la pena partire per riaprire l’annosa questione del gap salariale nel nostro Paese. Il Tesoro – secondo quanto tratteggiato dal Governo Meloni – cercherà di risparmiare sulle remunerazioni dei manager delle spa di Stato. Il decreto Lavoro prevede infatti che il ministero dell’Economia “nell’esercizio dei diritti dell’azionista inerenti l’approvazione della politica di remunerazione delle società con azioni quotate eserciti il diritto di voto al fine di assicurare che vengano adottate strategie dirette a contenere i costi, volte a privilegiare le componenti variabili direttamente collegate alle performance aziendali e a quelle individuali”. Insomma, più premi di risultato e meno parte fissa. Ma soprattutto un freno agli eccessi di un sistema remunerativo che – aggiungiamo noi – tra manager di Stato e manager privati appare fuori controllo ed in continua crescita. I numeri parlano chiaro. Nel 1980 gli amministratori delegati più pagati avevano un salario pari a 45 volte quello di un loro dipendente. Nel 2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41 milioni di euro, 416 volte lo stipendio medio annuo di un operaio; nel 2020 è stata di 9,59 milioni, cioè 649 volte. A questi dati fa riscontro la regressione, in Italia, dello stipendio medio annuale del 2,9%, un dato che ci ha fatto precipitare in fondo alla classifica dell’Ocse. La questione è di vecchia data, seppure, negli ultimi decenni, sottovalutata. Adriano Olivetti – durante gli Anni Cinquanta – diceva che “nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso”. In quegli anni di boom economico per il nostro Paese, l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta guadagnava 12 volte un operaio. L’ultimo stipendio di Sergio Marchionne in FCA nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico. Carlos Tavares, attuale CEO di Stellantis, nel 2021 ha percepito 19,10 milioni di euro e guadagna sulla carta 758 volte il salario di un suo metalmeccanico. Nel settembre scorso perfino Papa Francesco, in occasione dell’udienza ai partecipanti all’Assemblea pubblica di Confindustria, si è sentito in dovere di affrontare l’argomento, sottolineando che “se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società”. Senza perdere di vista il valore dell’intrapresa e del rischio aziendale, il Papa ha puntualizzato che se è vero che ogni lavoratore dipende dai suoi imprenditori e dirigenti,“… è anche vero che l’imprenditore dipende dai suoi lavoratori, dalla loro creatività, dal loro cuore e dalla loro anima: dipende dal loro ‘capitale’ spirituale”. Lo stesso Pontefice ha richiamato gli imprenditori sui salari: “Creare lavoro poi genera una certa uguaglianza nelle vostre imprese e nella società. È vero che nelle imprese esiste la gerarchia, è vero che esistono funzioni e salari diversi, ma i salari non devono essere troppo diversi. Oggi la quota di valore che va al lavoro è troppo piccola, soprattutto se la confrontiamo con quella che va alle rendite finanziarie e agli stipendi dei top manager”.Non è dunque eccessivo vedere l’attenzione del Governo verso gli stipendi dei top manager al di là del mero ambito pubblico. Lungi da noi il volere fare del facile moralismo. Prima o poi però su questa realtà bisognerà intervenire, cercando di riequilibrare il sistema, proprio per evitare il suo collasso economico e sociale e non solo per mere ragioni di bilancio. Non è allora velleitario pensare di “rinegoziare” i salari sulla base di una remunerazione partecipativa, che superi i vecchi (e nuovi) meccanismi salariali, collegando la retribuzione ai risultati d’impresa attraverso un sistema collaborativo fra i dipendenti ed il management. Con ciò realizzando un sistema retributivo legato ai profitti, in un mix tra salario fisso e quota variabile, rendendo i lavoratori partecipi dei risultati conseguiti e nel contempo avviando, su base aziendale, quelle politiche “ridistributive” più volte annunciate, ma mai concretamente realizzate. Dal mero livello salariale può insomma partire un più organico processo partecipativo, collegato, nelle aziende, alla trasparenza informativa, alla codeterminazione e alla programmazione: un salto di qualità essenziale per rendere realmente efficienti le scelte aziendali, soggette alle trasformazioni tecnologiche, e favorire nuove dinamiche di sviluppo. Nell’ambito della “partecipazione” tout court (finalizzata a rendere i lavoratori partecipi dei destini dell’impresa) la “partecipazione finanziaria” rappresenta, del resto, una componente essenziale, laddove – come si può leggere in Il Codice della partecipazione. Contributo allo studio della partecipazione dei lavoratori di Roberta Caragnano – “comprende tutte le ipotesi in cui i prestatori di lavoro siano coinvolti – in quanto tali e in ragione della attività lavorativa svolta – nei risultati economici dell’impresa e, in generale, si attua nelle forme della partecipazione agli utili e della partecipazione azionaria dei lavoratori, quest’ultima da realizzarsi anche con la creazione di fondi di investimento collettivo”. Ai diversi soggetti sociali e politici di svolgere – in questa prospettiva – il loro ruolo. Agli imprenditori di uscire finalmente dalla gabbia del mero tornaconto personale ed aziendale, ritrovando il senso della “funzione sociale” del loro operare. Ai Sindacati di favorire organicamente l’inclusione dei lavoratori nella gestione delle aziende. Ai territori di costruire forme di concertazione in grado di realizzare l’integrazione produttiva e sociale, a tutti i livelli, dalle Pmi alle grandi aziende. Allo Stato di introdurre pratiche “incentivanti”, a livello fiscale, aventi lo scopo di favorire accordi aziendali d’impronta partecipativa. In gioco – appare in tutta evidenza – non c’è “solo” un aumento dei salari, battaglia peraltro necessaria e cruciale per milioni di lavoratori, ma un ripensamento degli attuali assetti economici e sociali, nei quali il salario rappresenta la classica punta d’iceberg rispetto ad un sistema di valori, di libertà sostanziali, di gestione delle imprese, di capacità competitive che va “ripensato” alla radice. Ivi compreso il rapporto tra le remunerazioni dei vertici aziendali e quelle dei dipendenti.