di Mario Bozzi Sentieri

A sinistra ci si interroga sul sostanziale fallimento politico dell’ecologismo fatto partito. Sono passati trentasei anni da quando i primi deputati ambientalisti arrivarono, in bicicletta, a Montecitorio, sotto il simbolo del Sole che ride. Sembrava l’inizio di una nuova era. A tracciare il solco il movimentismo Grünen, d’origine tedesca. In realtà oltre le buone intenzioni della vigilia non si andò. A vincere fu, in realtà, il piccolo cabotaggio politico e la frammentazione delle sigle: Lista Verde, Verdi Verdi, Verdi Arcobaleno, Federazione dei Verdi, Verdi Federalisti, Lista Girasole, Giovani Verdi, La sinistra Arcobaleno, Europa Ecologia, Europa Verde. Si guardava “a sinistra”, ma soprattutto alle ambizioni tutte personali dei diversi capi e capetti locali, affaccendati a dividersi scranni parlamentari, ministeri, sottosegretariati ed assessorati, con il risultato di annacquare le aspettative della vigilia nell’insignificanza politica. Ora tocca alla neosegretaria, Elly Schlein, pronta a declinare femminismo ed ecologia. Prima di lei – in realtà – ci avevano provato Achille Occhetto (impegnato a costruire, dopo lo scioglimento del Pci, la stagione “dell’ecosocialismo”) e Walter Veltroni, che vedeva nel neonato Pd “un partito ambientalista”. I risultati sono noti a tutti. Alla prova dei fatti i giochi elettoralistici del verdismo “di sinistra”, sostanzialmente strumentale, hanno lasciato immutati i problemi reali della difesa dei territori , del rapporto uomo-ambiente, delle fonti energetiche pulite, della siccità, questioni non di poco conto, che richiedono risposte concrete, pragmatiche, economicamente compatibili. Ed insieme la crescita di un’ autentica consapevolezza ambientalista che vada al di là dei facili schematismi ideologici, cari a certa vecchia/sinistra. Su un piano strettamente politico, numeri alla mano, restringere l’emergenza ecologista in un ambito elettoralistico ha significato indebolire piuttosto che rafforzare il “movimento Verde”, facendogli perdere quella autonomia di elaborazione che era la sua forza originaria. Del resto c’era e c’è bisogno di più che qualche slogan di facciata. A cominciare da un equilibrio idrogeologico, non fatto di sola natura, ma anche di creazione umana, una creazione in grado di sistemare le terre e di valorizzarne la funzione (non solo produttiva, quanto soprattutto conservativa: pensiamo – da questo punto di vista – all’abbandono di tante aree interne del Paese). “La via italiana” allo sviluppo sostenibile – come ha ben specificato Gian Piero Joime (Le imprese agroalimentari per la rinascita. Sentieri di sviluppo nel regno della sostenibilità globale in L’Italia del futuro, Eclettica, 2020) – basata sulle coltivazioni e sui prodotti locali, passa anche sull’accelerazione della modernizzazione locale “tramite investimenti nelle infrastrutture, nelle reti di comunicazione e nelle energie rinnovabili. E naturalmente stimolando una cultura dell’innovazione adeguata alle specificità di ogni singolo territorio”. Alla sinistra globalista, che parla del pianeta, è invece mancata una visione identitaria che guardasse ai territori, puntasse sulla tutela delle specificità, declinasse tradizione e futuro, con al centro il ruolo ordinatore dello Stato impegnato a coniugare realtà locali e sistema globale, nel segno di una cultura dell’appartenenza, che avesse ben chiari gli interessi nazionali (a cominciare da quelli della Produzione e del Lavoro). Al di là di un ecologismo di maniera (fatto di tasse “etiche”, di biciclette e monopattini) non si è insomma andati. Eppure i riferimenti non mancavano. Bastava cercarli “altrove”. Come ha sottolineato Marco Tarchi (Molte destre, nessuna destra?, su “Trasgressioni”, n. 62, settembre-dicembre 2018) i cardini di una destra sensibile ai temi dell’ambientalismo “sono la protezione della diversità dell’ecosistema, contro la monocultura omogeneizzante planetaria; la credenza nell’esistenza di leggi di natura invalicabili e la accettazione della nozione di limite (che ha portato, fra l’altro, all’opposizione agli organismi geneticamente modificati, o ogm); la valorizzazione del rapporto con i luoghi e il paesaggio, contro la riduzione della natura a strumento di profitto”. Identità territoriali, innovazione compatibile con le specificità locali, rifiuto dell’utopia globalista: la sfida deve essere – in estrema sintesi – a tutto campo. Evitando che l’ambientalismo cada prigioniero di un “verdismo” di maniera, caro alla vecchia/nuova sinistra. Per ritrovare, al di là degli slogan di facciata, una realistica “via italiana” alla sostenibilità ambientale.