di Mario Bozzi Sentieri

Qual è lo stato di salute della Scuola italiana? Messe da parte certe polemiche strumentali (in funzione antigovernativa) la Scuola italiana, a partire dai suoi docenti, dovrebbe iniziare a fare i conti con le sue responsabilità (i propri limiti ed i propri doveri) rispetto ad un quadro generale, di malessere, sulle cui cause è tempo di interrogarsi seriamente. Sono i numeri a dirlo, leggendo il Rapporto Inapp Plus 2022, il quale ci consegna una fotografia non esaltante del nostro sistema scolastico. “Ancora oggi il 41% della popolazione tra 18 e 74 anni ha al massimo la licenza media (17,7 milioni di persone) – scrivono i ricercatori dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’analisi delle politiche Pubbliche) – i diplomati sono la maggioranza: 42%, pari a 17,9 milioni di persone. La porzione di popolazione con titolo di studio più elevato è composta da 6,1 milioni di laureati (14%) e 1,3 milioni di persone con master e dottorati di ricerca (il 3%) e le donne continuano ad avere livelli d’istruzione più elevati”. Sono però 11,7 milioni gli italiani che non si sono mai iscritti alla scuola secondaria superiore, quasi 4 milioni si sono fermati nel loro percorso di istruzione senza conseguire un diploma di scuola secondaria di secondo grado, mentre 5 milioni di diplomati, che si sono iscritti a percorsi universitari, non li hanno portati a termine, con un dispendio di tempo e di risorse assai significativo. In questo quadro è preoccupante che un giovane tra i 19 e i 24 anni su quattro non studi e non lavori. Di questi “numeri” la Scuola, a cominciare dal corpo docente, dovrebbe cominciare ad interrogarsi, evitando facili scappatoie o complici silenzi. Il limite dell’attuale approccio all’ “istruzione” è, quando c’è, l’ordinarietà: rattoppare gli istituti scolastici (vecchi e fatiscenti), migliorare i livelli retributivi degli insegnanti (sempre più bassi rispetto a quelli dei colleghi europei), informatizzare l’operatività interna ed esterna innescandola sulle vecchie strutture (con evidenti duplicazioni e spesso un eccessivo burocratismo). Di più non sembra esserci, nella diffusa inconsapevolezza del valore della Scuola e della partita che sulla sua testa si è giocata negli ultimi quarant’anni. La questione non è evidentemente solo di “investimenti”, quanto piuttosto “strutturale”, di visione, di strategie, di idee. Varrebbe la pena riprendere in mano, aggiornare e ripubblicare, un saggio di Primo Siena, significativamente intitolato La Scuola del malessere, pubblicato nel gennaio 1983 dalla Società Editrice Il Falco. Il libro, rielaborazione di I feticci dell’educazione contemporanea (Edizioni Thule, Palermo 1979) è un esame diagnostico, tuttora valido, del sistema educativo italiano: il collettivismo educativo che punta alla formazione del “gregario massificato”; l’uomo ad una dimensione di Marcuse contro l’uomo libero e responsabile di Rosmini; la pedagogia libertaria che nega l’autorità liberatrice del docente; i pregiudizi pseudo scientifici opposti alla cultura classica e umanistica; l’inutilità delle lingue antiche; il sociologismo pedagogico tardivamente importato in Italia dagli Stati Uniti. Scuola e società vanno peraltro di pari passo. In premessa al suo libro, Siena scrive: “L’analisi diagnostica del ‘male oscuro’, che corrompe i tessuti della nostra scuola si estende alla ‘rivolta contro la famiglia’ conseguita alla teorizzazione di una ‘cultura senza padre’, alla diffusione delle grammatiche strutturaliste fatta allo scopo di seminare la ‘confusione dei linguaggi’, all’applicazione di criteri di valutazione che abolendo i voti in nome di incerti ed evanescenti ‘giudizi’ soggettivi, hanno favorito l’avvio di una scuola ‘antimeritocratica’. Di chi le responsabilità ? Santino Mele, docente di Filosofia e Storia, presso una scuola secondaria di secondo grado,  in un libro più recente, La Scuola svaporata (Aracne, Roma 2018), ha tracciato il ritratto della Scuola riformata culturalmente soprattutto dalla sinistra, da Luigi Berlinguer a Valeria Fedeli, osservando in essa “la rinuncia a qualsiasi critica del presente, a prendere almeno le distanze dall’ideologia invadente della cultura come informazione piacevolmente acquisibile senza sforzo, e del sapere spendibile immediatamente in contanti sul mercato globale”. Dalla “Scuola del malessere”, evocata da Siena, si è ormai passati alla Scuola dell’”intrattenimento” in cui la gradevolezza didattica conta più di quello che si insegna, una Scuola “minimalista” in cui didatti e pedagogisti hanno teorizzato l’irrilevanza del sapere e della sua trasmissione a fronte dell’importanza del successo in classe (non si boccia più nessuno per non creare traumi) e fuori di essa (la famosa alternanza scuola- lavoro, monumento al fastidio aziendalistico per la scuola come luogo di studio e di crescita intellettuale e civile). “Non ci siamo accorti di come, pezzo dopo pezzo, venivano smontate e gettate via parti decisive di quella scuola dove la maggior parte di noi è cresciuta e si è formata. Parti che venivano sostituite con materiali fasulli, conditi di propositi tanto altisonanti quanto in sostanza vuoti, che ogni volta lasciavano le cose un po’ peggio di prima” – ha scritto Ernesto Galli della Loggia in L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola (Marsilio, Venezia, 2019). La Scuola di Barbiana contro Giovanni Gentile ci ha portato a questi risultati. Prenderne atto non basta. Da qui bisogna partire, magari riscrivendo i principi che debbono stare nuovamente alla base degli orientamenti scolastici (dopo gli eccessi dello sperimentalismo e del radicalismo classista) dando piena e concreta realizzazione al dettato costituzionale in tema di libertà d’insegnamento (contro l’invasività burocratica), di libero accesso all’istruzione (e quindi con un confronto competitivo tra Scuola pubblica e scuole private), di autentico riconoscimento del diritto allo studio a favore dei “capaci e meritevoli”. E’ proprio per uscire fuori da visioni “di classe”, che – di fatto – privilegiano i più abbienti, che occorre identificare chiari percorsi meritocratici (gli unici peraltro che possono rimettere in moto il cosiddetto “ascensore sociale”), in grado di ridare dignità all’insegnamento ed autorevolezza agli insegnanti, di riconoscere il valore dello studio, di fare ritrovare alle famiglie un percorso di crescita sociale per i loro figli, di riconnettere Scuola e mondo del lavoro. Lungo questi percorsi il Governo non può essere lasciato solo nella sua azione, ma va sostenuto ed incalzato dal mondo della Cultura più consapevole e responsabile, dai docenti che non vogliono assecondare il trionfante annacquamento culturale e lo “svaporamento” della Scuola stessa. Il rischio – alla fine – è che con la Scuola a “svaporare” sia l’Italia.