Il dire ed il fare
di Mario Bozzi Sentieri

Prima ancora degli orientamenti programmatici, oggetto del confronto parlamentare, il Governo Meloni ha rimarcato, con un nuovo lessico ministeriale, la sua volontà di declinare certe idee di fondo con la più stringente prassi governativa. Ecco allora una serie di “messaggi” in grado di dare una scossa allo stantio linguaggio burocratico. Parole chiare, dirette, che vanno ad affiancarsi ai nomi tradizionali di alcuni ministeri: Sviluppo economico che diventa Ministero delle Imprese e del made in Italy; Politiche agricole è rinominato Agricoltura e sovranità alimentare; Istruzione assume la denominazione di Ministero dell’Istruzione e del merito; Famiglia si trasforma in Ministero della famiglia e della natalità. Con queste indicazioni la compagine governativa traccia alcune linee programmatiche che vanno evidentemente ben oltre i meri confini delle indicazioni ministeriali, diventando vere e proprie affermazioni di principio, idee guida rispetto alle quali informare una politica. Qualcuno, a sinistra, ha ovviamente storto il naso, adducendo giustificazioni ridicole. Abbiamo ascoltato stralunati commentatori interrogarsi sul significato della parola “natalità”. Altri – di fronte alla “sovranità alimentare” – ipotizzare improbabili embarghi. Sul “merito” c’è chi ha giocato facile (e un po’ sporco) paventando discriminazioni nei confronti di chi non ha i mezzi per farcela. In realtà, dietro le parole guida del nuovo Governo, è la stringente logica dei numeri ed un’autentica visione sociale ad incalzare le idealità politiche. Di fronte all’avanzare dell’inverno demografico (con una popolazione italiana in continua decrescita, che da 59,2 milioni al 1° gennaio 2021, arriverà – con le tendenze attuali – a scendere sotto quota 50 milioni nel 2070) portare al centro dell’attenzione nazionale il tema della “natalità” significa iniziare ad immaginare ed attivare finalmente qualche rimedio in grado di invertire questa devastante tendenza. Parlare di “merito” vuole dire rimettere in moto il cosiddetto “ascensore sociale”, l’unica strada capace di garantire a ciascuno l’opportunità di sviluppare il proprio potenziale, a prescindere dalla provenienza socio-economica. Lo scrive peraltro la Costituzione italiana, che – all’articolo 34 – afferma testualmente: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Compito della Repubblica rendere effettivo questo diritto. Dire “sovranità alimentare” (e quindi anche di “made in Italy) significa fare i conti – dati Coldiretti – con una falsificazione dei nostri prodotti alimentari superiore a cento miliardi di Euro, con gravissime ricadute sul nostro sistema produttivo. Ed allora tutela e promozione delle nostre tipicità, ma non solo, laddove occorre fare ordine nel complesso campo dei brevetti e delle invadenze multinazionali. Ad averlo detto non è qualche inguaribile “reazionario”, ma il fondatore di Slow Food, Carlo Petrini: “C’è il progressivo abbandono della sovranità alimentare, una scelta compiuta e sostenuta da tutti i Paesi del primo mondo, nel corso della cosiddetta Rivoluzione Verde: pur di ottenere raccolti abbondanti, abbiamo consegnato le chiavi dell’alimentazione ai colossi della chimica, che oggi smerciano i semi più diffusi al mondo e al contempo producono i pesticidi. Ma i prezzi di quelle licenze non si potevano reggere, e così si è semplicemente smesso di coltivare”. Su queste basi, molto concrete, ma ugualmente suggestive, i grandi temi identitari si intersecano dunque con le tante emergenze nazionali, accumulatesi nel corso dei decenni, diventando fattori mobilitanti ed insieme impegni programmatici, richiami collettivi ed invito all’azione di governo. L’uso di certi termini dà fastidio ai benpensanti del politicamente corretto? Una ragione in più per continuare su questa strada, accendendo aspettative e lanciando idee guida (a quando il Ministero del Lavoro e della Partecipazione?). Anche qui, nella “guerra delle parole” si gioca la partita del cambiamento. Se questo è l’inizio c’è da ben sperare.