di Mario Bozzi Sentieri

Dovrebbe essere la base di ogni democrazia: il diritto all’alternanza tra le diverse forze politiche. Per anni è stato il rovello della politologia italiana, impegnata a denunciare l’anomalia di un Sistema, in cui la mancata sostituzione periodica dei governi con le opposizioni, prodotta dal libero voto degli elettori, peggiorava la qualità delle istituzioni democratiche, accentuandone la crisi. Dal 1994, con l’avvento della seconda Repubblica, l’anomalia sembrava sanata. In realtà tra ribaltoni, governi tecnici e “richiami” dell’Unione Europea il diritto all’alternanza ha avuto vita grama. Particolarmente negli ultimi dieci anni, dove di volontà popolare se n’è vista poca, malgrado – come afferma la Costituzione – l’esercizio del voto (“personale ed eguale, libero e segreto”) sia un “dovere civico”, garantito dal fatto che tutti i cittadini possono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” ed il diritto civile “non può essere limitato se non per incapacità civile”, per effetto di sentenza civile o nei casi di indegnità morale. Non sembri, il nostro, un richiamo meramente formale. Purtroppo, nelle ultime settimane, quelle che hanno accompagnato gli italiani al voto di domenica 25 settembre, il processo alle intenzioni, che ha contrassegnato la campagna elettorale, è andato nella direzione opposta rispetto al pieno rispetto della sovranità popolare in vista del diritto all’alternanza tra le diverse forze politiche. Formalmente a dettare legge sono sempre le urne, il parere espresso dal corpo elettorale. In realtà ad insinuarsi nell’immaginario collettivo, snaturando la normale dialettica democratica, sono state le supposizioni di parte, le interpretazioni faziose, gli appelli che nulla hanno a che fare con il normale confronto politico e programmatico. Con risvolti a dir poco paradossali. Ezio Mauro (su “la Repubblica”) è arrivato a denunciare l’avvento della “democrazia illiberale”, sintesi di una democrazia che entra in conflitto con sé stessa fino a negare i suoi principi, laddove arriva a comprendere nel suo seno la negazione della sua stessa natura, “perché i leader neo-autoritari hanno innescato la loro variante eretica sull’albero della credenza democratica tradizionale”. Piero Ignazi, uno studioso che reputavamo serio e culturalmente “attrezzato”, si è fatto ammaliare dal più becero schematismo ideologico, quello del “rosso” e del “nero”, arrivando a scrivere (su “Domani”): “Da un lato staglia il colore della passione, intrecciata con la storia dell’emancipazione, da quella nazionale – le camicie rosse garibaldine – a quella sociale delle lotte contadine e operaie d’inizio secolo. Dall’altro il nero funereo delle camicie che celebravano il culto della morte e della violenza”. E poi la solita tiritera sul passato che torna, su chi vuole una società aperta e chi invece la vuole chiusa e buia. Il fondo è stato toccato da Bernard-Henri Levy, ospite della striscia quotidiana della Rai Il cavallo e la torre, condotta da Marco Damilano. Dopo il solito fuoco di fila su Salvini, Meloni e Berlusconi (etichettati come patetici e ridicoli, traditori della Patria, populisti e quindi fascisti) il filosofo francese è arrivato a dire che il suffragio elettorale può non essere rispettato se il voto è sbagliato: un’offesa – a ben guardare – rivolta a tutto il popolo italiano, per chi vota il centrodestra, ma anche il centrosinistra, perché evidenzia un’idea faziosa e discriminatoria, al limite del razzismo, della democrazia. Più che ragionamenti è stato un saettare di invettive, terrore puro lanciato verso gli elettori, con l’immancabile strascico sulle ritorsioni Ue, sul rischio per i fondi del Pnrr e sulla credibilità del Paese. Così però si delegittima – di fatto – il senso stesso della democrazia, quella volontà popolare che ne è la base e che rappresenta, dovrebbe rappresentare, l’idem sentire della Repubblica, senza distinzioni di parte. Negare questi principi, a cui da destra a sinistra ci si è sempre attenuti, vuole dire snaturare ulteriormente il sistema rappresentativo, senza peraltro offrire una seria alternativa, operando solo “ad excludendum”, sulla base di principi di parte, di interessi particolari, di paure immotivate. Difendere la politica dell’alternanza significa – al contrario – riconsegnare agli italiani il diritto di scegliere da chi essere governati, sulla base di chiare e condivise proposte programmatiche. Dopo un decennio segnato dall’emergenza istituzionale e dal ribaltonismo si tratta dell’unica strada per uscire dal tunnel dell’emergenza costituzionale, ritrovando il senso di una “normalità” politica fatta finalmente di idee, di progetti, di proposte su cui confrontarsi. Nel segno di quel diritto all’alternanza che non ha, non dovrebbe avere, colori ideologici e che in quanto tale tutti dovrebbe garantire. A destra e a sinistra.