A rischio è la libertà di parola
di Mario Bozzi Sentieri

La censura ha tante facce. La più evidente è quella finalizzata al controllo sociale diretto, in grado di limitare la libertà d’espressione. Nella Russia sovietica, già dal 1917, era una componente essenziale del Regime, fino ad arrivare a contare, negli Anni Sessanta del ‘900, su un apparato di 70.000 funzionari, collegati al KGB (il Comitato per la Sicurezza dello Stato), in buona sostanza il servizio segreto. Un’altra forma di limitazione della libertà d’espressione è quella dell’autocensura, cioè della scelta di non menzionare certi argomenti. Si tratta di una forma “dolce” di censura. E’ subdola, nascosta, subliminale – si può dire. Non ha bisogno di apparati polizieschi. Non imprigiona fisicamente le persone, ma le incatena a livello inconscio. Come ha sottolineato Luca Ricolfi, intervenendo al recente convegno nazionale, organizzato da Alleanza Cattolica, sul tema “Cancel culture. Dalla ‘battaglia delle idee’ alla ‘guerra culturale’”, oggi argomenti delicati come il razzismo, la violenza sessuale, l’immigrazione vengono auto-silenziati per timore di essere fraintesi. L’imbarazzo diventa uno stato mentale, in un mondo di “suscettibili” nel quale è l’autocensura a prevalere, il quieto vivere ad imporsi, perfino in ambiti ristretti, nei salotti privati o nelle cene tra amici, dove certi temi sono tabù e la dissonanza rispetto al clima dominante rischia di provocare la rottura di legami sociali e perfino affettivi. Sulla strada della “cancel culture”, impegnata ad azzerare ogni manifestazione di pensiero che non sia allineata al potere del “politicamente corretto”, è la libertà di espressione a declinare. E’ un processo di condizionamento lungo e sotterraneo, ma già evidente a livello di opinione pubblica nei Paesi che sono gli alfieri della “cancel culture”. A cominciare dagli Stati Uniti. È stato costretto a prenderne atto perfino il “New York Times”, giornale di orientamento liberal, di fronte al risultato di un sondaggio, commissionato da varie testate, secondo il quale solo il 34 per cento degli intervistati ritiene che tutti gli americani sperimentino una reale di libertà di parola, laddove l’84 per cento dice invece che è un problema “molto serio” o “piuttosto serio” che alcuni americani non si sentano liberi di parlare quotidianamente per paura di ritorsioni o critiche. Di fronte a questo risultato il giornale è arrivato a scrivere: “Nonostante tutta la tolleranza e l’illuminazione rivendicate dalla società moderna, gli americani stanno perdendo il controllo di un diritto fondamentale per i cittadini di un paese libero: il diritto di esprimere la propria opinione e di esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere svergognati o evitati”. Soprattutto nei Paesi di cultura anglosassone è già in corso una vera e propria guerra sui diritti negati e sulle possibili contromisure per “ripristinare” la libertà d’espressione. Un esempio tra i tanti. Il 10 marzo scorso alla facoltà di Legge di Yale era in programma un dibattito sulle libertà civili a cui, tra gli altri, era stata invitata a parlare Kristen Wagoner dell’Alliance Defending Freedom, un gruppo conservatore che promuove la libertà religiosa. Durante l’incontro un centinaio di studenti di giurisprudenza ha fatto irruzione nell’aula urlando e insultando i relatori, impedendo loro di parlare fino a che non è dovuta intervenire la polizia per scortarli fuori. Come riferisce Piero Vietti, su “Tempi” del 24 marzo 2022, “un giudice di Corte d’Appello, Laurence Silberman, ha suggerito ai colleghi di non assumere nei prossimi anni i protagonisti di quel tentativo illiberale di censura: quanti danni potrebbe fare un giudice, o un avvocato, convinto che sia giusto non lasciare parlare chi ha idee diverse dalle proprie?”. La lettera di Silberman ha iniziato a preoccupare i progressisti. Ne ha parlato Megan McArdle sul ‘Washington Post’, lanciando un appello per “una tregua sulla cancel culture”. “L’articolo – scrive Vietti – è notevole perché segnala una nuova consapevolezza a sinistra: fino a che il pensiero e le azioni illiberali colpiscono i ‘non allineati’ all’ideologia woke la cosa non destava preoccupazioni particolari, era anzi liquidata come una fissazione dei bigotti, adesso che iniziano ad esserci reazioni, si invoca la tregua. McArdle dice che bisognerebbe chiedersi quanti degli studenti protagonisti della protesta sarebbero d’accordo a non dare un lavoro a qualcuno con opinioni ‘sbagliate’ su razza e orientamento sessuale (sottinteso: tutti) e dire loro che allora hanno poco da lamentarsi se un giudice suggerisce di fare lo stesso nei loro confronti”. In Gran Bretagna – come riferisce Pierre Valentin nell’importante saggio su “L’ideologia woke”, pubblicato dal quadrimestrale “Trasgressioni” – Boris Johnson ha annunciato la messa in atto di provvedimenti destinati ad assicurare la libertà d’espressione nei campus britannici. Gli ha fatto eco il suo ministro dell’educazione, che ha annunciato di volere nominare un garante della libertà di espressione e di insegnamento, “incaricato di indagare sulle potenziali infrazioni, come l’esclusione dei conferenzieri o il licenziamento di professori universitari”. È tempo di “cancellare” i cancellatori? Alla prova dei fatti il diritto alla libertà d’espressione si coniuga con il diritto alla memoria, alla cultura identitaria, nella misura in cui a venire giù – insieme alle statue – è la stessa libertà d’espressione. Il personale si fa politico – tanto per usare uno slogan d’annata. Esserne consapevoli, attivando le doverose contromisure, è doveroso. George Orwell, in 1984,  scriveva: “L’Ortodossia consiste nel non pensare — nel non aver bisogno di pensare. L’Ortodossia è inconsapevolezza”. Da qui, da una nuova consapevolezza, parte la battaglia per la libertà d’espressione e per il diritto alla memoria.