di Mario Bozzi Sentieri

A inizio febbraio i cosiddetti “cambi di casacca”, cioè coloro che, da inizio legislatura (2018), sono passati da un partito/schieramento politico ad un altro, spesso di orientamento opposto, hanno raggiunto quota 302, con un ritmo di sei spostamenti in media al mese. Percentualmente il trenta per cento degli eletti si è mosso da un gruppo parlamentare ad un altro: una vera e propria frana politica, della quale però in pochi sembrano preoccuparsi. Nessuno scandalo, meglio mettere la sordina al fenomeno. La grande informazione latita. Di tavole rotonde sul tema neppure l’ombra.
E poi si dice: c’è l’articolo 67 della Costituzione, che recita “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. E’ il “sale della democrazia”, garanzia di libertà contro le ingerenze partitocratiche.
Al di là dei facili, troppo facili, formalismi costituzionali, può veramente definirsi “democratico (e dunque rispettoso della volontà popolare) un sistema nel quale le istituzioni rappresentative sono in balia del “doppiogiochismo” degli eletti, dei piccoli interessi personali, del trasformismo mascherato da “grande politica”?
La questione non è nuova. Volendo cercare dei “padri nobili” all’attuale trasformismo parlamentare, si può andare all’autunno 1882, allorquando l’allora Presidente del Consiglio, Agostino Depretis, uomo della sinistra liberale, rispondendo a chi criticava gli accordi con la destra di Marco Minghetti disse esplicitamente: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”
Storia vecchia di centoquaranta anni fa eppure storia attualissima, per la sostanza politica di un trasformismo che oggi si mimetizza dietro i richiami alla responsabilità nazionale, all’emergenza, allo “stato di eccezione”. Anche con Depretis il termine “trasformazione” mirava al superamento delle vecchie divisioni nel nome degli interessi nazionali ed era finalizzato a stabilizzare il quadro politico, creando una grande maggioranza “centrista”, equidistante dalla destra e dalla sinistra.
Non tutti, allora, stettero zitti. Esemplare quanto ebbe a scrivere, nel 1883, Giosuè Carducci: “Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco dei ladri non essere più uomini e non essere ancora serpenti; ma rettili sì, e rettili mostruosi…”
Al fondo del trasformismo “storico” e di quello odierno c’è la crisi dei partiti politici, lo sfarinarsi dei richiami ideologico-identitari, e la debolezza del sistema rappresentativo a base democratico-parlamentare, con l’allentarsi dei legami tra gli eletti e gli elettori e l’eclissi di quello che Gonzalo Fernàndez de la Mora, storico esponente del pensiero neoconservatore spagnolo, definiva il “decoro politico”, fissato “nella concordanza tra ciò che si dice al popolo e ciò che si pensa, tra ciò che si è detto e ciò che si dice, tra ciò che si dice riguardo alla cosa pubblica e ciò che si fa. (…) Senza decoro politico qualsiasi forma di democrazia si trasforma in una presa in giro”.
Il richiamo al già ricordato art. 67 della Costituzione dunque c’entra poco, laddove altro discorso è quello della libertà del singolo parlamentare su questioni di ordine etico o eccezionale, come può essere un evento bellico. Nel caso dei “cambia-casacca” il problema è invece soprattutto politico e riguarda le contraddizioni interne ai partiti, autentico “buco nero” del nostro sistema costituzionale, che andrebbero regolati, prevedendo magari sanzioni per il cambio di casacca ed una penalizzazione sul fronte dei finanziamenti pubblici. Di questo i cittadini-elettori vorrebbero sentire parlare. Del resto in una democrazia autentica, cioè attenta alla volontà popolare, il vero vincolo per l’eletto non dovrebbe essere quello con il cittadino-elettore ?
Se il problema è politico, di “decoro politico”, è allora il momento di alzare il livello del confronto, anche su un argomento cruciale, qual è quello dei “cambi di casacca”, magari partendo da un centrodestra in cerca di argomenti forti intorno ai quali ricostruire la propria ragion d’essere politica.