Dott. Armando Riccioni – Responsabile Ufficio Legale Enas

 

 

La grave problematica dello sfruttamento dei lavoratori viene posta in risalto in un articolo pubblicato dal quotidiano “Sole24Ore”, in data 14 marzo 2016, in cui emerge anche la questione della configurabilità del reato di intermediazione abusiva di manodopera ex art. 603 bis, c.p..

Nel caso di cui trattasi nell’articolo, la Guardia di Finanza era intervenuta contestando la fattispecie di cui sopra ad una cooperativa edilizia, la quale si era avvalsa delle prestazioni di una s.r.l., che aveva effettuato nei suoi confronti una mera fornitura di manodopera, nonostante un contratto di subappalto.

I lavoratori, in buona sostanza, venivano pagati ad ore con un corrispettivo fisso molto basso, e rispondevano, nell’esecuzione dei lavori, alle direttive della cooperativa appaltante, nonostante il contratto di subappalto di cui sopra.

L’amministrazione finanziaria si era basata sul verbale di contestazione della G.d.F. ed aveva considerato i lavoratori come dipendenti della cooperativa, provvedendo a recuperare le ritenute irpef e le addizionali non versate come sostituto d’imposta; instauratosi il processo tributario, a seguito del ricorso della cooperativa, il giudice di prime cure accoglieva il ricorso con sentenza, che veniva poi riformata in appello, confermando pertanto la bontà degli accertamenti.

Ciò che si evince dal caso contenuto nel citato articolo è che le contestazioni mosse dalla Guardia di Finanza hanno avuto riscontro solamente dal punto di vista tributario ma non penalistico: in merito a ciò, è opportuno fare alcune specificazioni.

La fattispecie della intermediazione abusiva di manodopera è disciplinata dall’art. 603 bis, c.p., introdotto dall’art. 13 D.L. 13 agosto 2011, n. 138, poi convertito con modificazioni dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148.

Tale norma punisce il c.d. “caporalato”, un fenomeno presente in ampie zone del territorio nazionale, specialmente nel meridione, soprattutto nell’ambito dell’agricoltura e dell’edilizia; tale condotta criminosa consiste nel raggruppamento di operai da parte di taluni soggetti, cc.dd. “caporali” i quali li conducono presso i cantieri o i campi, al fine di metterli a disposizione di una impresa utilizzatrice, la quale a sua volta corrisponde un compenso al “caporale”, il quale, nella maggior parte dei casi, non si limita alla messa a disposizione del materiale umano, ma dirige direttamente i lavori, imponendo direttive ed orari di lavoro, spesso con l’uso della intimidazione e della violenza.

Oltretutto, trattasi di una forma di lavoro irregolare, “in nero”, pertanto in violazione di ogni regola in materia di sicurezza sul lavoro, orari e riposo, con conseguente evasione fiscale e contributiva.

La condotta tipica delineata dall’art. 603 bis c.p., consiste in una “attività organizzata di intermediazione reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata dallo sfruttamento mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.

Sulla base di quanto disposto dalla norma, si evince che la condotta sanzionabile necessita di una organizzazione, di persone e di mezzi, volta a reclutare manodopera o ad organizzarne l’attività lavorativa; ciò si presta a diverse interpretazioni: una prima corrente tende a porre in alternativa l’attività di intermediazione con l’organizzazione dell’attività lavorativa, ampliando pertanto il campo di applicazione anche a condotte distinte dal caporalato e consentendo, pertanto, di punire anche lo stesso datore di lavoro, il quale sfrutti la manodopera messa a disposizione dagli intermediari.

Una seconda linea di interpretazione, invece, pone l’accento solo sull’attività di intermediazione, accompagnata dal reclutamento o dall’organizzazione dell’attività lavorativa, o da entrambe le condotte: tale interpretazione consente di punire solo l’intermediario, poiché sia il reclutamento che l’organizzazione del lavoro sono da ritenersi condotte “accessorie” della necessaria attività di intermediazione.

Come descritto dalla norma, l’attività di intermediazione deve essere finalizzata, per essere punibile, allo sfruttamento dei lavoratori: per potersi ritenere che un lavoratore venga sfruttato, il legislatore stabilisce che devono configurarsi, insieme od alternativamente tra loro, talune circostanze, quali, ad es. una retribuzione largamente inferiore rispetto a quella prevista dai contratti collettivi nazionali di categoria; la violazione continua delle disposizioni in materia di orario di lavoro, riposo settimanale, ferie ed aspettativa obbligatoria; la violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro, sottoponendo il lavoratore a rischi per la propria salute ed incolumità ed infine la sottoposizione del lavoratore a condizioni lavorative e di sorveglianza particolarmente oppressive e degradanti.

Non solo, ma, in base al disposto normativo, perché si configuri il reato ex art. 603 bis c.p., è necessaria altresì l’uso della violenza, intesa come uso della forza fisica al fine di sottoporre taluno in uno stato di coazione, della minaccia, intesa come prospettazione di un male futuro e della intimidazione, il cui significato è chiaramente contenuto nel concetto di minaccia. Pertanto, in base a quanto disposto dalla norma, la condotta del caporale che recluti e sfrutti operai consenzienti, non rientra nella fattispecie descritta dalla norma in esame.

Ulteriore requisito, infine, è costituito dallo sfruttamento dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori: mentre lo stato di necessità richiama l’art. 54 c.p. il quale descrive una situazione di costante estremo pericolo per il soggetto, e quindi restringere il campo di applicazione della norma solo a casi estremi, lo stato di bisogno è invece descritto dalla Suprema Corte di Cassazione come uno stato temporaneo di estrema criticità che non consente al soggetto passivo di provvedere anche alle più semplici esigenze di vita quotidiana, che quindi estende l’applicabilità della norma a numerosi ulteriori casi.

Alla luce di quanto finora esposto, considerato che la norma dovrebbe essere indirizzata principalmente a tutelare il lavoratore e sottrarlo da qualsivoglia genere di sfruttamento, anche e soprattutto dal punto di vista economico, della sicurezza sul lavoro, degli orari lavorativi, delle ferie e dei mancati contributi, appare superflua e limitativa la necessità della condotta violenta o intimidatoria da parte del soggetto attivo ai fini della configurazione della fattispecie in esame.

La stessa, infatti, restringe il campo di applicazione alle sole condotte che pongano in uno stato di coercizione fisica o psichica il lavoratore, restando impunite tutte le altre ipotesi – come nel caso descritto dall’articolo de “Il Sole 24 ore” –  in cui la condotta violenta o intimidatoria non si verifica: a parere dello scrivente, risultano già sufficienti ai fini della configurazione di una fattispecie punibile e meritevole di tutela da parte del legislatore, gli elementi della intermediazione, del reclutamento o organizzazione del lavoro, dello sfruttamento e dell’approfittamento dello stato di bisogno o di necessità del soggetto passivo – lavoratore.

Infatti, il diritto ad una retribuzione adeguata, alla sicurezza sul luogo di lavoro, a condizioni igieniche adeguate, al versamento dei contributi, sono diritti irrinunciabili e meritevoli di tutela adeguata, a prescindere dall’uso della violenza/intimidazione o meno.