di Antonella Marano

Per essere più competitivi bisogna abbattere i costi ed investire sulla robotica. Questo il pensiero tramutato già in azione dall’80 per cento delle aziende americane  che – secondo un’indagine diffusa dall’agenzia Reuters –  dribblata la possibilità della delocalizzazione, puntano alla sostituzione dell’uomo con menti artificiali, automi.

Il caso lampante viene proprio dagli Usa, dove la multinazionale Carrier Corporation – maggiore produttrice e distributrice di sistemi di riscaldamento, ventilazione e condizionamento e leader nella refrigerazione commerciale e nelle attrezzature per l’industria alimentare – ha deciso che i 16 milioni di investimento diretti al sito di Indianapolis, saranno diretti tutti alla robotica riducendo così l’occupazione umana ai minimi termini.

La battaglia di Donald Trump in difesa dei posti di lavoro e contro la delocalizzazione delle aziende sta portando a risultati diversi rispetto a quelli sperati: l’impatto della robotica rappresenta difatti una sfida diretta alle politiche protezioniste del Presidente.

Secondo uno studio pubblicato di recente dai due economisti Daren Acemoglu del Massachussetts Insitute of  Technology e Pascual Restrepo della Boston University l’industria americana  ha introdotto in media un nuovo robot industriale ogni mille operai, tra il 1993 e il 2007. In Europa  l’automazione è ancora più spinta: 1,6 robot ogni mille operai. Ogni robot nuovo che viene installato per ogni mille operai distrugge 6,2 posti di lavoro e fa calare dello 0,7 per cento il salario. Tra il 1990 e il 2007 l’automazione ha distrutto 670.000 posti. E stiamo parlando solo di fabbriche manifatturiere negli Usa. Ma l’intelligenza artificiale avanza implacabile nella finanza dove elimina bancari, nel settore ospedaliero dove elimina tecnici delle analisi, nelle prenotazioni degli aerei o di spettacoli, un giorno forse sarà anche alla guida dei taxi. Altro, quindi, che Uber o concorrenza sleale.