A partire da domani si terrà in Portogallo la riunione ICCAT dove si affronterà lo spinoso tema dell’introduzione nel Mare Mediterraneo del tetto (“total allowable catch”) alle catture totali di pesce spada.

L’ICCAT (International Commission for the Conservation of Atlantic Tuna ) è l’organizzazione internazionale che si occupa della conservazione dei tunnidi e delle specie affini (pesci spada e squali) nell’oceano Atlantico e mar Mediterraneo.

La proposta dell’Unione Europea, contenuta nella “Raccomandazione ICCAT XX-16 SWO che sostituisce la Raccomandazione [13-04] che stabilisce un Piano pluriennale di ricostituzione per il pesce spada del Mediterraneo”, prevede la presentazione all’ICCAT di un piano d’emergenza per il recupero degli stock di pesce spada, simile a quello messo in atto a partire dal 2006 per il tonno rosso.

Proposta della Commissione europea in risposta all’allarme lanciato dagli scienziati lo scorso mese nel corso di una riunione a Madrid prevede un piano di recupero, che sarà presentato dal commissario all’Ambiente e alla pesca, Karmenu Vella, con l’introduzione di un tetto (“total allowable catch”) alle catture totali di pesce spada nel Mare Nostrum, diminuendo ogni anno questo limite massimo, “in linea con i pareri scientifici”.

Ciò significa che le navi attivamente dedite alla pesca del pesce spada (Xyphias gladius) nel Mediterraneo dovranno attuare un piano di recupero di 15 anni a partire dal 2017 fino al 2031, con l’obiettivo di raggiungere il BMSY (criterio che misura la Biomassa da cui si può ricavare la massima resa sostenibile) con almeno il 60% di probabilità.

La misura di conservazione contenuta nella citata Raccomandazione prevede che già nel 2017 si applichi il TAC (Totale Ammissibile di Catture) fissato a livello delle catture del 2015 (10138t). Grande è la preoccupazione tra i pescatori, che da settimane hanno proclamato lo stato di agitazione della categoria con manifestazioni di protesta che si sono già svolte in molte marinerie, per tale limitazione della capacità che dovrà essere applicata per tutta la durata del piano di recupero.

E già nel 2017, si dispone nel Documento UE, le imprese di pesca interessate dovranno limitare il numero delle loro navi da pesca autorizzate a pescare il pesce spada del Mediterraneo al numero medio annuo dei loro pescherecci che hanno pescato, tenuto a bordo, trasbordato, trasportato o sbarcato pesce spada del Mediterraneo nel periodo 2013-2016.

Ed ancora, a partire dal 2018 il TAC dovrebbe essere gradualmente ridotto del 25% nell’arco dei cinque anni consecutivi, corrispondente ad una riduzione del 5% annuo, rispetto al totale delle catture dichiarate per il 2015.

Il richiamato documento prevede anche la creazione, nei primi mesi del 2017, di un apposito gruppo di lavoro dell’ICCAT per stabilire una ripartizione giusta ed equa della quota nella pesca del pesce spada del Mediterraneo attraverso la predisposizione di un piano di ripartizione da convocarsi nei primi mesi del 2017. Il gruppo di lavoro, nel contesto della creazione dello schema di ripartizione, dovrà utilizzare criteri trasparenti e oggettivi, compresi quelli di natura ambientale, sociale ed economica, e in particolare prendere in considerazione la risoluzione dell’ICCAT sui criteri per l’assegnazione delle possibilità di pesca.

Dal nostro punto di vista, la decisione dell’UE di limitare le catture del pesce spada nel Mediterraneo ha il sapore della disfatta per la pesca italiana, già colpita, quasi a morte, dall’introduzione di un sistema di vincoli e limitazioni che ne ha ridotto notevolmente la produttività con conseguente flessione dei livelli di occupazione nel comparto. Elemento che si somma ad altri fattori esogeni come la crisi economica internazionale e la massiccia importazione senza una tutela della produzione nazionale che hanno determinato un aumento dei costi aziendali ed una riduzione degli utili, spingendo al margine del mercato centinaia di imprese di pesca.

Difatti, l’introduzione di un sistema di quote per il pescespada metterebbero in ginocchio la nostra flotta che vale il 50 per cento dell’intera produzione del Mediterraneo. Prima di procedere ad ulteriori limitazioni nella capacità di cattura delle specie ittiche – a nostro avviso – sarebbe più opportuno lavorare per migliorare gli strumenti che già ci sono.

Altra grana caduta sulla testa dei pescatori riguarda la pesca dell’alalunga.

La pesca dell’alalunga (Tonno bianco del Mediterraneo – Thunnus alalunga) con utilizzo del palangaro derivante è stata recentemente vietata con decreto del Ministero delle Risorse Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF). Per garantire il novellame di pesce spada è stata introdotto il divieto di utilizzare lo strumento da pesca palangaro derivante dal primo ottobre al 30 novembre. Pur riconoscendo che la misura è resa necessaria per salvaguardare gli stock di pesce spada non è possibile però – secondo l’UGL – non accompagnare con misure socio economiche le imprese ed i lavoratori impegnati in questo tipo di pesca autorizzati con apposita licenza alla pesca del pesce spada. Si tratta di una platea di imbarcazioni che conta più di 860 navi da pesca delle quali più dell’80 per cento nel Meridione ed in Sicilia in particolare e circa 2 mila pescatori coinvolti.

E impossibile pensare ad una TAC per il pesce spada perché significherebbe dover suddividere la quota spettante all’Italia per un numero enorme di imbarcazioni autorizzate al palangaro per la cattura del pesce spada rendendo antieconomica la misura e oltremodo di difficile attuazione.

Sembrerebbe che lo studio fatto sulla consistenza degli stock del pesce spada sia stato fatto escludendo l’Italia nello studio. E siccome l’Italia rappresenta più del 50 per cento delle catture totali annuali nell’Unione europea lo studio è parziale e non tiene conto dell’effettivo stock complessivo. La soluzione migliore riteniamo sia quella delle misure gestionali, adottate già in Italia, che ci vedono costretti per la Raccomandazione ICCAT ad osservare tre mesi del divieto di pesca del pesce spada nel mese di marzo, ottobre e novembre di ogni anno ed in più il decreto MIPAAF che ha sancito il divieto di pesca dell’alalunga e l’utilizzo del palangaro derivante per il periodo di ottobre e novembre di ogni anno.

Queste misure gestionali dovrebbero fornire adeguate risposte nel tempo. Oggi è insensato parlare di quote se non in un lasso di tempo di almeno un decennio per comprendere gli effetti di queste misure attivate.

Auspichiamo, inoltre, che il Governo nazionale avvii l’adeguamento dei tipi di pesca di cui all’articolo 9 del decreto del Presidente della Repubblica 2 ottobre 1968, n. 1639, in funzione dell’evoluzione tecnologica ed in coerenza con la normativa sovranazionale, con particolare riferimento alla possibilità di modificare e/o estendere l’operatività delle navi da pesca, nel rispetto delle esigenze di salvaguardia della salute e della sicurezza della vita umana in mare.

Occorre assolutamente operare una revisione generale dei tipi di pesca di cui al D.P.R.1639/1968, al fine di adeguarli all’evoluzione tecnologica delle dotazioni di sicurezza e dei sistemi di controllo, garantendo al contempo un eguale trattamento rispetto alle imbarcazioni battenti bandiere diverse che operano (o possono operare) in condizioni di maggior favore rispetto alle nostre.

Riteniamo che, oggi fissare per legge, quindi in maniera eccessivamente rigida, un limite di operatività che non tenga conto dei cambiamenti in atto sugli scafi e sui sistemi di sicurezza della navigazione non è più sostenibile.

Occorre, quindi trovare in fretta una soluzione per le nostre imprese che sono sempre più esposte alla concorrenza di flotte straniere, garantendo al contempo i necessari standard di sicurezza e mantenimento dei livelli occupazionali per i pescatori, evitando la fuoriuscita di centinaia di lavoratori dal comparto.

Lo stato di salute della pesca italiana rischia di essere seriamente compromesso. La pesca italiana si trova ancora a dover fronteggiare una crisi reale e grave, pur essendo potenzialmente in grado di incidere strategicamente e positivamente sul rilancio del Paese. L’Unione europea ha attestato la gravità della crisi degli ultimi anni: riduzione della cattura al ritmo del 2 per cento annuo, un calo costante dei redditi, incidenza dei costi di produzione per lo strascico fino al 60 per cento. Per quanto riguarda l’Italia, gli ultimi dati disponibili registrano la fuoriuscita di oltre 4.000 pescherecci per una flotta che oggi si assesta intorno alle 13.000 unità. Nella sola Sicilia i pescatori sono passati da circa 20 mila a poco meno di 8 mila negli ultimi 15 anni.

Questo rischia di rendere irreversibili gli effetti di una crisi che trae origine da una molteplicità di fattori: dai problemi dell’inquinamento marino a quelli riconducibili ad una pesca non sempre razionale chiamata a fare i conti con il problema del sovra sfruttamento delle risorse; dalla fragilità del tessuto economico del sistema pesca, composto da un insieme di piccole e medie imprese, frammentato, debole nei confronti del sistema creditizio e delle reti della distribuzione e commerciali agli aumenti continui e costanti dei costi di produzione, che gli operatori non sono in grado di scaricare sul prezzo dei prodotti alla prima vendita.

L’intero comparto si trova di fronte ad una vera e propria emergenza che rischia di avere, specie nelle aree più deboli del Paese, contraccolpi socioeconomici ed occupazionali devastanti; ma siamo anche di fronte ad un cruciale momento di svolta, che, se adeguatamente governato, può consentire un’innovazione strutturale in grado di innescare quei processi di cambiamento utili a valorizzare le attività produttive del settore per un consolidamento delle imprese in un contesto di filiera e per incidere positivamente nello sviluppo del Paese.

Secondo quanto riportato in un documento dell’ACI (Alleanza Cooperative Italiane), nel 2014, infatti, il contributo al valore aggiunto nazionale, prodotto dalle filiere riconducibili all’economia del mare, ha raggiunto il valore di 45 miliardi di euro (in termini nominali) con un’incidenza sul totale del 3 per cento: quasi il doppio di quanto prodotto dal comparto del tessile, abbigliamento e pelli o più del doppio delle telecomunicazioni e il triplo di quello del legno, carta ed editoria. Dal punto di vista occupazionale, i quasi 800 mila lavoratori impiegati nel settore rappresentano il 3,3 per cento dell’occupazione complessiva del Paese, superiore di quasi 240mila unità a quella dell’intero settore formato dalla chimica, farmaceutica, gomma, materie plastiche e minerali non metalliferi. Inoltre è importante sottolineare che nel settore operano imprese in cui trovano spazio anche i giovani e le donne, visto che una su 10 è guidata da under 35 e ben due su 10 da imprenditrici. Tra le caratteristiche fondamentali dell’economia del mare c’è quindi anche quella di essere in grado di attivare indirettamente ulteriori effetti sul sistema economico: per ogni euro prodotto da questo settore se ne attivano infatti altri 1,9 nel resto dell’economia. Ciò conferma la sua importanza strategica anche in chiave di rilancio del Paese, che sarebbe un errore sottovalutare e frenare.

Giuseppe Messina

Segretario regionale UGL Sicilia