di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Ci risiamo. Appena si avvicina una scadenza politica importante, che sia un turno elettorale o l’approvazione di una legge significativa come quella di bilancio, ecco che, puntualmente, si riaffaccia l’incubo per eccellenza, lo spread. Con il rischio che a forza di agitare lo spauracchio, un po’ come nella favola del ragazzo che gridava “al lupo, al lupo!”, nasca per riflesso una certa insofferenza mista a indifferenza rispetto a quello che, comunque, potrebbe rappresentare una cartina di tornasole interessante per monitorare l’andamento dell’economia nazionale e internazionale. Questo rapporto, che rappresenta il differenziale di rendimento tra Btp italiani e Bund tedeschi a dieci anni, era inizialmente uno fra i tanti indicatori per esperti di economia e finanza, sconosciuto – giustamente – ai più. Prima della crisi del 2008 non era considerato un problema, era piuttosto esiguo e l’economia andava bene. Poi il divario ha iniziato a crescere ed è stato dato in pasto al grande pubblico, in versione “pop”, ovvero esasperata e semplificata, trasformandolo in una specie di feticcio post moderno. Ricordiamo tutti cosa accadde: era il novembre del 2011 e, con il differenziale alle stelle, a 553 punti, si decise il turbolento passaggio di consegne fra Berlusconi e Monti e a Palazzo Chigi arrivò il Professore al posto del Cavaliere. Dopo, nell’era dei governi tecnici o a guida Pd, nonostante in alcuni momenti fosse tutt’altro che basso, lo spread tornò nell’anonimato e solo con la vittoria alle politiche dei “populisti” è di nuovo ricomparso in grande spolvero. Ed ora non c’è Bar dello Sport in cui non si parli del campionato di Serie A e dell’andamento dello spread. Si è trasformato in una specie di oracolo massimo, in grado di vaticinare con grado di fallibilità pari a zero il presente e anche il futuro del Paese, ma, ed è questa la cosa più singolare, non solo sulla base di concreti dati economici, quanto piuttosto in modo strettamente connesso al posizionamento politico, alle decisioni e finanche alle intenzioni dei governanti. Un oracolo quindi, sensibilissimo e dotato perfino di un’ideologia tutta sua: lo spread è convintamente neoliberista. Quindi valuta e giudica – a quanto dicono i suoi più accreditati interpreti – più che il braccio di ferro sui dazi fra Usa e Cina e la conseguente guerra commerciale fra le grandi potenze che inevitabilmente coinvolgerebbe l’economia mondiale, altri fattori, come le visoni politiche dei partiti, le scelte economiche e le possibili alleanze presenti e future dopo il voto alle europee. Insomma, basta una parola di Salvini su eventuali rinegoziazioni degli accordi Ue ed ecco che s’impenna, segno che alcune cose non si possono non solo fare ma neanche ipotizzare. A questo punto, almeno per maggiore chiarezza, non attendiamo che una discesa in campo del “partito dello spread”.