di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

Viviamo in tempi di autocritica, ogni giorno assistiamo al mea culpa di un qualche personaggio del vecchio establishment in crisi di identità, dalla Merkel a Juncker, da Prodi a Calenda. “Noi dell’élite abbiamo sbagliato tutto – dicono – non siamo stati capaci di capire e interpretare i bisogni dei cittadini, ma ora faremo diversamente”. Allora forse è il caso che anche l’altro fronte, quello cosiddetto populista, faccia anch’esso ammenda dei propri errori, per contribuire alla seduta terapeutica collettiva. Uno fra questi, foriero di fraintendimenti, è quello di aver definito la propria controparte “élite”. È ora di chiedere scusa e chiarire la faccenda: non sono élite. Si tratta, tutt’al più, di semplici privilegiati. Se, infatti, l’élite è per definizione “l’insieme delle persone considerate le più colte e autorevoli in un determinato gruppo sociale, e dotate quindi di maggiore prestigio” ebbene la gran parte dei membri della vecchia classe dirigente potrebbe essere definita in svariati modi, ma non certo come élite. Diciamolo, è stato fatto loro un complimento quanto mai immeritato. Si rasserenino, quindi, possono lasciare il campo ad altri in tutta tranquillità, non hanno capacità tali da non poter essere sostituiti. Nella maggior parte dei casi, ai vertici del mondo produttivo, culturale, politico, nei posti occupati dal vecchio establishment non si trovano che persone decisamente medie, per non dire mediocri, semplicemente molto fortunate, arrivate ad occupare posizioni di prestigio perché nate in famiglie abbienti e ben introdotte, oppure per aver dimostrato la sufficiente dose di conformismo culturale, disponibilità e faccia tosta. Le nostre classi dirigenti, che hanno condotto l’Europa e l’Italia alla crisi, che hanno fatto aumentare povertà e insicurezza sociale, travolte da scandali, impastate di baronie e clientelismo, tenute a galla da aiuti pubblici quando chiedono al popolo di non lamentarsi e di affrontare la giungla del liberismo sfrenato senza profferire parola perché questa è la modernità, non sono élite. Magari lo fossero. Potremmo anzi ribaltare la questione e dire che il populismo ha avuto il merito di dire, come il bambino nella favola, quello che tutti pensavano, ma non avevano il coraggio di gridare: “il re è nudo”. Ovvero che i nostri vecchi potenti non hanno sufficienti meriti per poter stare sugli scranni che occupano e per di più a pontificare. Ed è per questo che a noi populisti non scandalizza la presenza di gente nuova, a volte di origini umili o dai modi spicci, ai posti di comando: ci sembra, al contrario, una boccata d’aria fresca, una possibilità di verificare se, fra chi prima era tenuto forzatamente ai margini, ci sia magari qualche personalità veramente dotata di capacità e di visione. Per arrivare finalmente ad avere quello che da tempo ci mancava: una vera élite.