di Francesco Paolo Capone
Segretario Generale Ugl

“Abbiamo il dovere di attuare la Brexit o sarà una catastrofe per la democrazia”. Così si è espressa ieri la premier inglese Theresa May. Certo, si tratta di un’espressione forse iperbolica, dettata dalla situazione non certo facile in cui si trova il governo d’oltremanica. Ma c’è comunque del vero. Il fatto che la volontà popolare sia sconfessata in modo plateale su un tema tanto importante, in merito al quale i britannici hanno espresso già il proprio giudizio, non è certo un bel segnale. Come ha fatto notare la stessa May, cosa si sarebbe detto se fosse accaduto l’esatto opposto, ossia se gli inglesi avessero votato per restare nella Ue e la politica si fosse invece impegnata a boicottare il Remain per costringere il Regno Unito ad uscire dall’Unione? Sarebbe stato un fatto di gravità inaudita, così come lo è ora, a parti inverse, l’invocare una nuova consultazione referendaria. Il suffragio universale, la sovranità popolare non sono principi che possano essere difesi solo quando l’esito delle votazioni è quello preferito, pena il crollo di tutto l’impianto non solo politico, ma anche valoriale su cui si fondano le democrazie occidentali. Aggirare l’ostacolo continuando a votare finché l’esito delle urne non coincide con i desiderata dell’establishment, diventerebbe un esercizio dispendioso ed anche piuttosto ridicolo. Diceva Mark Twain in un suo noto aforisma “Se votare facesse qualche differenza non ce lo lascerebbero fare”. Ecco, un nuovo referendum non farebbe che dar ragione al celebre scrittore. E se poi vincesse di nuovo il Leave? Altrimenti ci sono altre ipotesi sul da farsi: si potrebbe tentare un’uscita senza accordo, anche se molto onerosa per tutti, tentare di rinegoziare l’accordo con la Ue, ma Bruxelles è contraria all’idea di riaprire il tavolo delle trattative, oppure sfiduciare il governo e indire nuove elezioni. Difficilmente riuscendo a rispettare la data del 29 marzo. In ogni caso la vicenda inglese è destinata ad avere un’eco profonda in tutta Europa. Il tardivo mea culpa di Juncker sulle politiche di austerity è un tentativo, maldestro, di cercare di chiudere la stalla quando già sono usciti i buoi. Ovvero quando il sogno europeo del dopoguerra si è ormai trasformato nell’immaginario collettivo in un incubo dal quale è vietato svegliarsi. Per questo rendere possibile un’uscita dignitosa e conveniente al Regno Unito, pur con tutte le conseguenze negative che ciò comporterà ai restanti Stati dell’Unione, è l’unica soluzione capace di consentire alla Ue di avere un futuro. Se la volontà inglese non dovesse essere rispettata, infatti, l’Unione assomiglierà sempre più ad una prigione dalla quale si tenterà in un modo o nell’altro di uscire e prima o poi un modo, in uno dei tanti Paesi che la compongono, sarà trovato, aprendo una falla nella diga, poi difficilissima da rimarginare.