di Mario Bozzi Sentieri

L’ 8 aprile di quest’anno cadrà il novantesimo anniversario della nascita dello storico Renzo De Felice. Anche la Legge finanziaria, da poco approvata, se ne è ricordata, destinando un contributo per ricordare l’anniversario. Ne siamo ovviamente lieti. E’ un piccolo segnale, ancora più significativo di fronte ai rigurgiti di un antifascismo becero ed ignorante, strumentale e quindi lontanissimo da qualsiasi approccio storicamente fondato rispetto al fascismo, a cui De Felice dedicò la sua ricerca, facendo Scuola e scompaginando  interpretazioni che andavano per la maggiore: dall’idea crociana del Ventennio  inteso  come “parentesi” e come “malattia morale” alla visione del fascismo come risultato di una “fase di assestamento” dei processi  di industrializzazione; dall’interpretazione gobettinana che individuava nel fascismo un prodotto degli antichi mali d’Italia a quella comunista, che risolveva tutto nell’idea dell’arma estrema al servizio del capitalismo, sul punto di soccombere sotto la spinta della vittoria proletaria. Rispetto a questo quadro d’assieme De Felice  ruppe con tutte le vecchie scuole interpretative usando i documenti, facendo parlare i fatti, comparando, studiando veramente. Il risultato più immediato fu “un libro serio, documentato, ponderato, scritto, per quanto possibile, senza pregiudizio” – come ebbe a riconoscere, in un articolo, pubblicato dal “Secolo d’Italia”, nel 1965, uno studioso attento, ma  anticonformista, Adriano Romualdi, che vide subito nell’opera di De Felice (e si era appena al primo volume) una “prima pietra per la ricostruzione della viva immagine di Mussolini”, fino ad allora schiacciata nell’incomprensione: “Da una parte – scriveva Romualdi – ci sono l’ ingiuria, la diffamazione, la calunnia contro un avversario la cui ombra non dà pace e tregua. Dall’altra la patetica e casalinga rievocazione dei fedeli che rischia di deformare in una oleografia borghese la personalità del più spregiudicato rivoluzionario della storia d’Italia”. Da quel 1965 l’impegno defeliciano non ebbe né tentennamenti, né cadute di stile. Nessuna voglia di “riabilitare” – sia ben chiaro –  come lo accusarono subito di volere fare i rappresentanti dell’accademismo antifascista. “La mia preoccupazione – disse in occasione della contestatissima “Intervista”, rilasciata a Michael A. Ledeen ed uscita nel 1975 – è quella di capire il fascismo, anche se qualcuno obbietta che così c’è il rischio di capirlo troppo”. Un’ovvietà – se vogliamo – dal punto di vista di una corretta, cioè libera, interpretazione storica. Un’eresia per il contesto in cui De Felice si trovò ad operare. Un contesto che male sopportava l’idea del Mussolini “rivoluzionario” (titolo del primo volume della monumentale biografia), trovando via via scandalosa la matrice giacobina, mazziniana e sindacal-rivoluzionaria del fascismo delle origini; l’idea del “consenso” tributato al fascismo dagli italiani (laddove la vulgata corrente aveva sempre parlato di un regime violento, che si reggeva sulla forza); l’avere sottolineato il grande impulso dato dal regime fascista alla modernizzazione nazionale; la “storiografia afascista” ed il “qualunquismo storiografico” di De Felice. Contestato perfino all’interno della sua Università, il professore continuò nel suo impegno, affiancando alla ricerca storica interventi di taglio più spiccatamente “politico”, come l’intervista, rilasciata, nel 1987, a Giuliano Ferrara e pubblicata da il “Corriere della Sera”, nella quale le norme contro il fascismo, contenute nella Costituzione, erano definite “grottesche” e quindi da abolire o come il libro-intervista “Rosso e Nero” con Pasquale Chessa, pubblicato nel 1995, in cui veniva smontata la “baracca resistenziale”, ivi compresa la retorica sulla partecipazione popolare alla “Guerra di liberazione”. Il risultato di questo lavorio fu che con la sua opera De Felice riconsegnò il fascismo alla Storia dell’Italia, costringendo tutti, a sinistra e a destra, ad uscire dal tunnel delle incomprensioni e della retorica di parte. Non a caso, nel 1976, uscì l’ “Intervista sull’antifascismo” di Giorgio Amendola, nella quale lo storico dirigente del Pci invitava ad una rilettura critica dell’antifascismo, in rapporto alla complessità  del suo “doppio”, il fascismo, al suo essere – per usare la definizione defeliciana – regime e movimento, coacervo complesso di culture diverse, “blocco di forze  eterogenee”. Sul versante opposto, sempre nel 1976, sono Pino Rauti e Rutilio Sermonti a dare alle stampe una “Storia del fascismo”, in sei volumi, percorsa dall’idea di superare la distinzione ideologica del fascismo come fenomeno “di destra” ovvero “di sinistra”. La consapevolezza di fondo, nell’anno del novantesimo dalla nascita, è che dopo De Felice non ci può più essere spazio per la retorica di parte, sia di matrice “neofascista” che “antifascista”. Bisogna piuttosto, sulla via tracciata, continuare a studiare e a capire. Senza perdere di vista l’esempio defeliciano ed il senso del suo impegno, riconsegnatoci incorrotto dall’anniversario d’occasione. Un anniversario da non sprecare.