L’Istat aggiorna i dati di riferimento che sono utilizzati per i rinnovi nei vari settori
Non si tratta di un semplice dato statistico, come ne escono praticamente ogni giorno, quanto, piuttosto, di uno degli elementi portanti della contrattazione collettiva. L’Istat ha appena aggiornato l’indice Ipca al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, fissandone il valore per il 2023 al 6,9%, invece al 7%. Per i prossimi anni, la stima è dell’1,9% per il 2024 e del 2% annuo fino al 2027. L’Ipca, vale a dire l’indice armonizzato su base europea che misura l’andamento dell’inflazione, è stato introdotto come parametro per il rinnovo della parte economica dei contratti collettivi con la riforma del 2009, che fu sottoscritta, per parte sindacale, da Cisl, Uil e Ugl, ma non dalla Cgil nonostante la partecipazione ai tavoli di confronto che si erano tenuti a Palazzo Chigi, e da tutte le organizzazioni datoriali, grandi e piccole. L’allora presidente del Consiglio dei ministri era Silvio Berlusconi. L’indice Ipca andò a sostituire il precedente dato che veniva utilizzato, per effetto degli accordi che avevano portato alla definizione del Protocollo sulla politica dei redditi del 1993, vale a dire l’inflazione programmata. A conti fatti, l’aumento medio previsto per il pubblico impiego appare, quindi, in linea, o quasi, con l’Ipca, mentre nel settore privato occorre fare riferimento ai singoli contratti collettivi nazionali per capire l’eventuale scostamento.