di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Nonostante il tasso di occupazione femminile sia in aumento e sia arrivato al 52,5% nel 2023, comunque inferiore alla media europea del 65,8%, in Italia il rapporto fra donne e lavoro resta ancora precario e sbilanciato, sia dal punto di vista della quantità che della qualità del lavoro femminile, come ci ricorda un’analisi di Antonio Longo su Italia oggi Sette. Lo confermano i dati del rapporto «Mamme equilibriste» di Save the Children Italia: le donne italiane, nonostante raggiungano livelli di istruzione superiori rispetto agli uomini, sono spesso relegate in settori specifici, come quello dei servizi sociali (85%), dell’istruzione (75%) e della sanità (68%), mentre raramente riescono a costruirsi una carriera in altri ambiti o ad occupare posizioni di leadership: solo il 18% dei professionisti e il 28% dei manager sono donne. Un problema di mentalità diffusa con, ancora oggi, alcuni settori non considerati “femminili”. Una visione che condiziona le stesse ragazze, e le famiglie, già a partire dalle scelte compiute quando ancora sono inserite nel mondo scolastico, preferendo alcuni indirizzi formativi rispetto ad altri, anche se più remunerativi. Poi c’è il tema della distribuzione all’interno delle famiglie dei compiti di cura, che ricadono quasi per intero sulle donne, un problema che accentua le disparità: è su di loro che ricade il 74% dei carichi familiari, penalizzandone la realizzazione professionale. La questione riguarda particolarmente le donne madri: su 100 donne senza figli che sono occupate, solo 73 donne con figli lavorano e la situazione si aggrava nel Mezzogiorno. Un problema che è molto maggiore fra le donne con bassa scolarizzazione: sono, infatti, quelle con istruzione superiore o laurea a riuscire a conciliare meglio vita professionale e familiare. Una situazione complessiva di insoddisfacente partecipazione al mondo del lavoro rispetto alle aspettative, definita dal termine anglosassone «Labour slack», che può presentarsi sotto forma di inattività e disoccupazione, part-time involontario, lavoro precario – ad esempio, tra i 25 e i 34, se il 25% degli uomini che lavorano ha un contratto a termine, la percentuale per le donne sale al 32% – sotto-occupazione e che, comunque, significa per le donne minore inclusione sociale e minore disponibilità economica, che, ricordiamolo, in età avanzata si traduce in pensioni più basse e maggiore rischio di povertà. Un circolo vizioso che condiziona negativamente non solo le stesse donne, ma l’intera comunità, in termini di minore sviluppo, minori consumi ed anche denatalità. Numeri aggiornati, ma che descrivono una situazione già ben nota, che va affrontata tramite misure, convinte ed incisive, sia a livello aziendale che a livello politico, che favoriscano l’equilibrio tra vita privata e lavoro e supportino la maternità. A beneficio di tutti.