di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Qualche decennio fa nessuno si sarebbe posto il problema della felicità sul posto di lavoro ed anche oggi le prime battaglie sindacali riguardano questioni ben più concrete, dalla salute e sicurezza al potere d’acquisto di stipendi e salari. Il tema potrebbe sembrare quasi futile, eppure bisognerà farci i conti se è vero, come afferma uno studio condotto dal Politecnico di Milano in collaborazione con Doxa e di cui si parla oggi sul Sole 24 Ore, che sempre più persone, soprattutto giovani, sono disposte a rinunciare al lavoro se le condizioni non soddisfano determinati requisiti di benessere personale. Accentuando così quel divario tra domanda e offerta, quel mismatch che già penalizza il nostro sistema produttivo. Il tema riguarda soprattutto la Generazione Z, i ragazzi nati a cavallo del nuovo millennio che hanno meno di trent’anni, i quali, rispetto ai lavoratori delle generazioni precedenti, sono maggiormente inclini a declinare le offerte di lavoro, a ritirarsi durante i processi di selezione, a cercare, anche quando occupati, un impiego migliore, a dimettersi se insoddisfatti. Non solo per motivi economici, ma soprattutto per evitare lo stress, dando maggior peso alla dimensione privata. Molti giovani lavoratori vivono la propria occupazione con inquietudine e malessere. Un problema che investe le imprese, che incontrano molte più difficoltà di prima nell’attrarre e mantenere talenti e che stanno rispondendo attraverso iniziative di formazione, riqualificazione e welfare aziendale. In parte questa situazione è figlia del benessere: i giovani lavoratori, ancora sostenuti dalla rete familiare e spesso conviventi con i propri genitori, possono “permettersi” di essere più selettivi. In parte si può anche incasellare il problema tra le conseguenze sociali generate dalla pandemia. Ma queste sono spiegazioni solo parziali: il lavoro, che nel passato era elemento fondante dell’identità di un individuo, non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale, negli anni è stato svuotato di senso. A causa dei cambiamenti tecnologici, produttivi e anche delle leggi sul lavoro che hanno favorito la flessibilità, erodendo la fidelizzazione fra lavoratore ed azienda, che prima durava dall’assunzione alla pensione. Poi, la perdita del potere d’acquisto di salari e stipendi non ha aiutato i giovani a mettere al primo posto un lavoro, in molti casi, insufficiente a garantire da solo una piena indipendenza economica, senza avere supporti esterni, di tipo familiare. Per ridare al lavoro un valore primario, non solo come fonte di reddito, ma come strumento di partecipazione alla vita della comunità, serve una rivoluzione culturale. Quello che noi spesso definiamo un nuovo “patto fra capitale e lavoro”, basato su migliori condizioni e su una maggiore partecipazione, perché, come dice il primo articolo della nostra Costituzione, è su questo che si fonda la Repubblica. Solo con il contributo attivo di tutti la società riesce a mantenersi coesa ed a prosperare.