Il lavoratore deve portare i documenti, ma poi è il giudice a valutare la condotta del presunto persecutore
Con l’ordinanza n.35235 del 30 novembre 2022 la Cassazione si pronuncia su un interessante caso che riguarda un pubblico dirigente, il quale ha agito in sede giudiziaria per vedere riconosciuto il danno provocatogli dalle condotte di mobbing poste in essere dal Sindaco del comune da cui dipendeva, consistenti nei ripetuti trasferimenti a settori diversi da quello di originaria appartenenza. La Corte d’Appello, confermando la sentenza del Tribunale di Trani, ha rigettato la domanda di risarcimento danni per mobbing. Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo che la fattispecie era incentrata non sui singoli atti di attribuzione degli incarichi ma sul complesso delle condotte unitariamente considerate in termini di mobbing. Inoltre, non è stato adeguatamente considerato che tutti gli atti adottati dal Sindaco aventi ad oggetto il mutamento di incarico del ricorrente erano stati annullati dal TAR e dal Consiglio di Stato per illegittimità, tradendo la volontà punitiva e persecutoria del Sindaco. Poi ancora, secondo il ricorrente, la Corte d’Appello aveva errato ritenendo l’equivalenza degli incarichi dirigenziali a lui conferiti. Infine, dalla documentazione allegata dal lavoratore si evinceva chiaramente l’animus nocendi del Sindaco rivelato dall’uso di espressioni di sapore intimidatorio, offensive, lesive della dignità professionale del dirigente. La Cassazione ha accolto il ricorso del dipendente. Ha ritenuto carente la motivazione della sentenza della Corte d’Appello perché si fonda solo sulla valutazione frammentaria e atomistica dei singoli provvedimenti e non sviluppa una valutazione globale delle iniziative di carattere punitivo adottate nei confronti del dirigente mentre nella fattispecie assume rilievo determinante proprio la reiterazione e la sistematicità della condotta datoriale. L’elemento qualificante del mobbing va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica e che spetta al giudice di merito accertare o escludere.