di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale UGL

In questi giorni ricorre un trentennale che ha segnato uno spartiacque nella storia della Repubblica: la vittoria del Centrodestra alle elezioni del 27 marzo 1994. Un terremoto politico perché, dopo tangentopoli e la fine della Dc, una coalizione, composta da quelli che oggi definiremmo “i conservatori” nelle loro varie anime, rappresentate da Forza Italia, Lega e Msi, non solo riusciva a tenere testa alla sinistra, ma anche a batterla clamorosamente. Il resto della storia è noto: negli anni seguenti il Centrodestra, con alterne vicende, ha sempre rappresentato la maggioranza del Paese, salvo brevi interruzioni, spesso determinate più da giochi di Palazzo che dal sostegno dei cittadini, ed ha cambiato il modo di fare politica in Italia. Di questo avvenimento stanno parlando in tanti in occasione del trentennale, ma da un punto di vista prettamente politico. C’è anche un altro aspetto da considerare, però: l’effetto di questo cambiamento sulle relazioni industriali e sindacali. Il Centrodestra a guida Berlusconi ha avuto il merito di guardare al Paese reale e sbloccare una situazione che negli anni si era cristallizzata in un monopolio di alcune sigle sindacali e datoriali, consentendo un confronto più inclusivo ed anche più pragmaticamente tarato su un mondo produttivo in profondo cambiamento. Il primo momento di soluzione di continuità rispetto al passato è stato rappresentato dal Protocollo sulla politica dei redditi, che nel luglio del ‘93 era stato approvato dalla Triplice e che poi venne firmato dalla Cisnal il 22 dicembre del 1994, con in carica il primo governo Berlusconi. Un modus operandi che si riproporrà con il Patto per l’Italia del 5 luglio 2002 e poi con la riforma della Contrattazione collettiva del 2009, sempre con il Centrodestra al governo del Paese, sottoscritti dal lato delle organizzazioni sindacali da Cisl, Uil e Ugl senza la Cgil. Con, nel frattempo, la parentesi della firma da parte della Cgil del Protocollo sul Welfare del 2007, espressione del governo Prodi. Insomma, con il bipolarismo – dopo cinquant’anni di guida della Dc e dei suoi alleati – nasce anche una singolare situazione dal punto di vista del sindacalismo più ideologizzato a sinistra: gli accordi si firmano non tanto sulla base di cosa contengono, ma solo se c’è la sinistra al governo. Neanche il governo Monti, tecnico e quindi non strettamente “di sinistra”, sfuggirà a questa regola non scritta con le proprie Linee guida sulla produttività. A conti fatti, uno dei meriti della rivoluzione politica nata nel ‘94 consiste nell’aver palesato alcune prese di posizione più politiche che sindacali e nell’aver sbloccato i rapporti fra Governi e Parti Sociali aprendo il confronto a tanti soggetti sindacali e datoriali che fino a quel momento erano rimasti, ingiustamente, ai margini. Una novità non gradita da alcuni, ma certamente più equa, inclusiva e soprattutto più vantaggiosa per le imprese ed i lavoratori italiani.