di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Non sono solo i prodotti low-cost, che, almeno, hanno il pregio essere accessibili a tutti. Anche i cosiddetti beni di lusso non sfuggono alla regola. Aver impostato il sistema produttivo delocalizzando ed esternalizzando ha significato, di fatto, accettare uno sfruttamento dei dipendenti mascherato. Il risultato delle delocalizzazioni: la deindustrializzazione e terziarizzazione dell’economia a casa nostra, con l’esplosione di precariato e sotto occupazione soprattutto giovanile, aziende indifferenti ai diritti dei lavoratori nei Paesi emergenti. Il tutto senza generare particolari contraccolpi da parte delle organizzazioni internazionali che regolano il commercio e che si occupano di tutelare il lavoro. Oltretutto questa situazione ha determinato un altro effetto negativo, un ulteriore rovescio della medaglia di cui spesso abbiamo parlato, specie dal periodo pandemico in poi, ovvero una eccessiva dipendenza dell’Europa dall’estero per il reperimento perfino di beni necessari, ormai fabbricati quasi tutti altrove. Ricordiamo quanto avvenne nel 2020 con le mascherine e gli altri dispositivi basici di sicurezza. Cosa che potrebbe accadere di nuovo con altri prodotti, data la crisi in corso nel Mar Rosso. Possibile che la logica del profitto impedisca di agire per cambiare uno stato delle cose non solo profondamente iniquo per le classi sociali medio basse, sia europee che dei Paesi emergenti, ma anche estremamente pericoloso in un mondo sempre più instabile? Quest’opera di esternalizzazione finalizzata al taglio dei costi della produzione abbattendo quelli del lavoro tramite lo sfruttamento dei dipendenti non avviene però, almeno in Italia, solo valicando i confini. Accade addirittura a casa nostra. Tollerando la presenza sul territorio nazionale di aziende, spesso di proprietà straniera, che eludono le leggi a tutela del lavoro. Ora è scoppiato lo scandalo Alviero Martini, marchio noto dell’alta moda, che conta, nonostante sia conosciuto in tutto il mondo, meno di cento persone alle proprie dirette dipendenze. Perché il grosso dell’attività è delegato tramite appalti e subappalti e la produzione affidata ad opifici cinesi che si basano, lo apprendiamo dalla cronaca di queste ore, su lavoro a cottimo sottopagato, totale disconoscimento delle norme su salute e sicurezza, turni di lavoro massacranti, operai ospitati per l’alloggio negli stessi laboratori, immaginiamo dietro pagamento, e la gran parte dei lavoratori costituita da manodopera immigrata. La società non risulta indagata, ma è finita in amministrazione giudiziaria e per il caso specifico attendiamo l’esito dell’inchiesta. Ma è un dato di fatto che servano controlli più pervasivi, da parte delle imprese committenti e dello Stato, per smantellare un intollerabile sistema di sfruttamento che danneggia la società, il mondo del lavoro e l’economia. Inutile negare l’evidenza.