L’1% in proporzione paga meno tasse rispetto al restante 99%. Secondo una ricerca, le disuguaglianze dei redditi italiani sono cresciute a vantaggio di chi non ne ha alcun bisogno
Messa così non basterebbe neanche un taglio strutturale del cuneo fiscale: l’1% più ricco, in proporzione, paga meno tasse rispetto al restante 99% dei contribuenti. È ciò che rivela uno studio congiunto di Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Università di Milano-Bicocca, pubblicato dalla rivista scientifica Journal of the European Economic Association. Il sistema fiscale italiano viene giudicato «blandamente progressivo» e «addirittura regressivo» per il 5% degli italiani più abbienti, che pagano un’aliquota effettiva inferiore al 95% dei contribuenti, i quali hanno visto salire l’imposizione fiscale dal 40% al 50%. Una beffa se si pensa che per il 5% dei contribuenti più ricchi l’aliquota effettiva scende fino al 36%, per chi guadagna oltre i 500 mila euro annui. Importanti le differenze anche in relazione alla tipologia di reddito: sono i lavoratori dipendenti a pagare più imposte, seguiti dai lavoratori autonomi, dai pensionati e, infine, da chi percepisce soprattutto rendite finanziarie e locazioni immobiliari. Dal 2004 al 2015, mentre il reddito nazionale reale si riduceva del 15%, il 50% più povero degli italiani subiva la maggiore perdita con un calo di circa il 30%. In quel 50% più povero, i più colpiti sono i giovani tra i 18 e i 35 anni, con una perdita del 42% circa del loro reddito. La disuguaglianza di genere è in ogni classe di reddito e raggiunge valori estremi proprio nell’1% più ricco della distribuzione, dove le donne guadagnano circa la metà degli uomini. La minore incidenza fiscale per i redditi più elevati è spiegata da fattori come l’effettiva regressività dell’Iva (grava meno sui cittadini abbienti che risparmiano di più); dal minor peso dei contributi sociali per i redditi superiori ai 100 mila euro; dalla maggiore rilevanza per i contribuenti più ricchi delle rendite finanziarie e dei redditi da locazioni immobiliari, tassati con un’aliquota del 12% o del 26%. Secondo autrici e autori dello studio, servono riforme mirate a «correggere gli squilibri presenti riducendo le disuguaglianze e promuovendo una distribuzione del carico fiscale in modo proporzionato». Altro che salario minimo.