Il contratto è utilizzato soprattutto nel turismo, nel commercio e per la stagionalità

Più volte si è parlato di strumento utile per conciliare le esigenze produttive con quelle dei dipendenti, soprattutto in periodi particolari della loro vita professionale. Il contratto di lavoro intermittente, però, rimane sotto impiegato, nonostante la crescita esponenziale degli ultimi dieci anni. Un incremento certificato dall’Istat, che ha dedicato al lavoro intermittente un dossier specifico. Ad oggi, tale tipologia contrattuale si applica mediamente a circa 288mila addetti (anche se nell’ultimo trimestre si è toccato il picco di 312mila unità), pari al 2,1% degli occupati. Si tratta nella quasi totalità dei casi di operai, i quali rappresentano poco meno del 90% della platea. Guardando alla durata dei contratti, invece, nell’83% dei casi siamo davanti a contratti a tempo determinato. Fra i settori di maggiore utilizzo, troviamo molti di quelli legati al turismo, al commercio e alla stagionalità. Poche le ore lavorate, tanto è vero che servono tre lavoratori intermittenti per coprire un addetto a tempo pieno. Il contratto di lavoro intermittente è stato introdotto con la riforma Biagi, anche se è stato poi oggetto di ulteriori interventi nel corso degli anni. In buona sostanza, il lavoratore si rende disponibile a chiamata, ricevendo una indennità per il tempo di disponibilità. Una delle ipotesi di impiego formulate a suo tempo rimanda al ricorso al lavoro intermittente come accompagnamento al pensionamento. La normativa prevede un tetto massimo alle chiamate nel corso del triennio. L’obbligo di comunicazione anticipata all’Inps del ricorso a tale tipologia contrattuale ha permesso di fare emergere un certo sommerso.