di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Mentre continuano le trattative europee sul nuovo patto di stabilità, un dato importante può aiutare a comprendere gli effetti controproducenti della nuova austerity che sembrerebbe volersi imporre a Bruxelles, tramite quel combinato disposto fatto di alti tassi d’interesse da un lato e regole più stringenti sul rapporto deficit e Pil degli Stati Ue dall’altro. Il dato in questione, di cui si parla oggi su La Stampa, riguarda le imprese italiane, in particolare nel settore del terziario, che in 4 casi su 10 hanno rinunciato ad investire a causa della stretta sul credito, come calcolato da un’indagine di Confcommercio e Format Research. Un problema relativo soprattutto alle aziende piccole e piccolissime, molto diffuse in Italia e fondamentali per la nostra economia. Imprese che già erano state penalizzate dalla pandemia, poi dalla crisi energetica ed infine dalle crisi geopolitiche internazionali. Ed ora messe alle strette anche dal punto di vista dell’accesso al credito e dell’onerosità dei prestiti. In base ai dati della ricerca, circa il 40% delle imprese italiane del terziario hanno avuto difficoltà nel rapporto con le Banche, ottenendo meno denaro in prestito rispetto a quello richiesto o addirittura vedendo respinta la propria richiesta di credito, oppure, se ottenuto il prestito, a causa del peggioramento delle condizioni di finanziamento. Situazioni che hanno costretto le aziende stesse ad abbandonare del tutto, il 31,2% delle imprese, o a ridurre, l’11,4%, i propri progetti di investimento. Azzerando o diminuendo le spese per migliorare la propria attività, rinunciando a reclutare nuovo personale o limitando il numero delle nuove assunzioni, evitando o riducendo al massimo gli investimenti su innovazione e sicurezza. Evidente la ricaduta negativa sull’intero sistema economico-sociale, in un circolo vizioso di stagnazione. La rinuncia ad investire significa, infatti, meno crescita per tutti: meno consumi, meno occupazione, meno tasse pagate allo Stato. Attualmente, dopo dieci rialzi consecutivi dei tassi, c’è stata una pausa, ma stando alle parole di Christine Lagarde, una riduzione non arriverà in tempi brevi. Eppure la questione è chiara: per migliorare il rapporto tra deficit e Pil non basta una pur necessaria riduzione degli sprechi, ma occorre necessariamente puntare sulla crescita economica. Per tante ragioni: innanzitutto con un Pil in crescita anche se il deficit resta costante il rapporto diminuirà, migliorando la solidità finanziaria del Paese. Poi la crescita determina un aumento delle entrate fiscali, causa una maggiore occupazione e una minore disoccupazione, con un effetto benefico non solo sulla popolazione, ma anche sul fisco, generando maggiori entrate e minori uscite legate all’assistenza, aumenta la fiducia degli investitori e dei creditori nei confronti di un Paese. Logiche di buonsenso, che pensavamo ormai patrimonio comune anche a Bruxelles alla luce delle crisi recenti, e che, invece, continuano ad essere osteggiate dai miopi sostenitori dell’austerità a tutti i costi.