A giugno salari +1% su mese e +3,1% su anno. Ma il caro-vita brucia oltre 6 punti potere acquisto

Crescere di poco non serve. Secondo l’Istat, l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie a giugno 2023 ha segnato un aumento dell’1,0% rispetto a maggio 2023 e del 3,1% rispetto a giugno 2022. L’aumento tendenziale è stato del 3,9% per i dipendenti dell’industria, dell’1,6% per quelli dei servizi privati e del 4,4% per i lavoratori della PA. A fine di giugno 2023, sono 42 i contratti di lavoro in vigore e riguardano, per la parte economica, il 46,1% dei dipendenti, pari a 5,7 milioni di persone e al 45,2% del monte retributivo complessivo. Il segno evidente che in Italia, almeno, non serve un salario minimo, semmai rafforzare la contrattazione, sta in proprio in questi dati. Tendenze positive che, però, da sole non bastano e che vanno a scontrarsi irrimediabilmente con la realtà: nei primi sei mesi del 2023, nonostante il recente rallentamento dell’inflazione, la distanza tra la dinamica dei prezzi (IPCA) e quella delle retribuzioni supera ancora i sei punti percentuali. È chiaro che con il costo del denaro in continuo aumento, a causa della stretta sui tassi di interesse che la Bce sta praticando da mesi e che non ha intenzione di abbandonare pur di frenare l’inflazione, e con il prezzo della benzina (al self, oltre 1,88 euro, ai massimi da un anno) e gasolio in rialzo, anche quello praticato alle pompe bianche, i salari da soli non ce la fanno e non ce la faranno a sostenere il ritmo del costo della vita. Quello che occorre è una spinta, purché sia, ovviamente, strutturale e non per pochi mesi. Ovvero, il taglio del cuneo fiscale previsto dal Governo fino a dicembre è un segnale positivo, ma è fondamentale renderlo strutturale anche nel 2024.