di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Grandi cambiamenti in corso, a causa delle trasformazioni economiche, ma anche dei nuovi equilibri politici che stanno portando a rivedere assiomi un tempo considerati intoccabili, nel segno, dal nostro punto di vista, della concretezza e del buon senso, per questioni pratiche, ma anche per ragioni ideali. Uno dei temi di questi giorni, ad esempio, è quello delle “materie prime critiche”, che, come ha sintetizzato il ministro Urso sulla base della definizione dell’Ue, sono 34 materiali considerati strategici “per la loro rilevanza nella transizione ecologica e digitale, destinati all’aerospazio e alla difesa, alla produzione di batterie elettriche e pannelli solari, ma anche importanti per il divario fra offerta globale e domanda prevista”. L’Italia, che siamo abituati a pensare come priva di materie prime, ne possiede in realtà 16, che, però, si trovano in miniere chiuse ormai trent’anni. Miniere che secondo le intenzioni del Governo dovrebbero, invece, riaprire, attraverso adeguati investimenti per riattivarle, con il benestare di Bruxelles, che dovrebbe attivare delle norme specifiche in proposito entro la fine dell’anno, con l’obiettivo comune di “ridurre le dipendenze strategiche”. Una questione, quindi, di ordine pratico, data la necessità per l’industria di sostanze sempre più importanti e richieste per la transizione digitale ed ecologica che, però, attualmente arrivano dall’estero, parte delle quali, invece, potrebbero essere prodotte da noi, con tutte le conseguenze non solo economiche, ma anche politiche del caso. Un progetto capace di ridisegnare il nostro sistema produttivo, in senso positivo se ben amministrato in termini di salute, sicurezza e rispetto dell’ambiente, creando occupazione ed innovazione. Ma anche una decisione fondata su ragioni ideali, che si ricollega alla crisi – inevitabile a nostro avviso – del modello di globalizzazione che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Un modello travolto dalle emergenze, sanitarie, economiche e politiche, che ne hanno mostrato in modo plateale tutta la debolezza e le evidenti ricadute negative sulle popolazioni europee in termini di insicurezza. Un modello in crisi, che si accompagna al declino delle idee politiche che l’avevano sostenuto e caldeggiato. Ora, seppur con molte difficoltà e fra parecchie resistenze, si sta facendo largo un’altra visione, basata su maggiore concretezza e buon senso. Non si tratta di essere “sovranisti”, ma semplicemente di riconoscere l’importanza di rendere l’Italia e l’Ue il più possibile autonome, in un’economia mondiale che deve rimanere certamente aperta, ma che, per evitare un’inesorabile sudditanza non solo economica dell’Europa rispetto ad altre potenze, non può più essere fondata sulla dipendenza del Vecchio Continente da Paesi terzi in settori di importanza strategica.