di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

In Italia c’è una questione salariale evidente e di questo argomento si parla, da un interessante punto di vista, anche sul Foglio di oggi, dove, in un articolo di Luciano Capone, si rileva che l’Employment outlook 2023 dell’Ocse, presentato ieri, ha certificato una dinamica di crescita dei salari inferiore all’inflazione. La diminuzione del potere d’acquisto dei salari reali dei lavoratori è un fenomeno diffuso in tutta la zona Ocse, ma in Italia il problema è decisamente più significativo che altrove. Se la media dei 34 Paesi dell’area, nel 1° trimestre 2023, è del -3,8% rispetto all’anno precedente, da noi si arriva al -7,3%, una cifra quasi raddoppiata. Questi gli effetti devastanti dell’inflazione, che ha eroso più o meno una mensilità su 13 in un anno. E per i prossimi mesi non sono attesi miglioramenti significativi. Ora, come suggerisce giustamente l’articolo, se è lecito aspettarsi interventi da parte della politica, e il taglio del cuneo fiscale va in questa direzione, se è altrettanto doveroso notare che le strategie messe in campo dalla Bce non hanno risolto il problema e forse invece l’hanno ulteriormente aggravato, nel dibattito, anche sindacale, c’è un “grande assente”, ovvero le imprese. I dati segnano un’economia in ripresa, anche dal punto di vista occupazionale, però c’è un ritardo nel rinnovo dei contratti, con più della metà dei lavoratori italiani il cui salario o stipendio è regolamentato da un contratto scaduto da oltre due anni. La stessa Ocse consiglia, per tentare di arginare il problema, di puntare sulla contrattazione collettiva, specie per quei settori che sono riusciti a combattere il fenomeno inflazionistico aumentando i prezzi dei beni o dei servizi offerti ai consumatori. Anche perché, in un’ottica di lungo periodo, converrebbe alle imprese stesse non trovarsi coinvolte in una spirale di stretta dei consumi. È su un potenziamento della contrattazione collettiva, nazionale ed aziendale, che si deve puntare nell’ambito del dialogo sociale. Oggi invece la parola d’ordine sembra essere quella del “salario minimo”. Un progetto che potrebbe facilmente rivelarsi non solo inutile per veder aumentare i salari reali e quindi il potere d’acquisto dei lavoratori, ma anche controproducente, imponendo per legge un punto di riferimento nella gran parte dei casi peggiorativo rispetto alla situazione attuale, che potrebbe portare, con tutta probabilità, non a livellare verso l’alto la situazione dei pochi settori non coperti dalla contrattazione, ma, al contrario, a spingere verso il basso tutti gli altri. In sintesi, la Bce deve fare la sua parte, cambiando politiche e prospettive, la politica ed il Governo devono impegnarsi sempre di più cercando soluzioni, ma le imprese non possono essere esentate dal loro dovere di contrattare coi lavoratori condizioni e salari adeguati al contesto contemporaneo.