di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale Ugl

Il giorno dopo l’anniversario della Liberazione, proseguono le polemiche che ogni anno contraddistinguono l’evento. E stavolta di polemiche ce ne sono state, se possibile, ancora di più, perché al governo c’è Giorgia Meloni, e, dopo l’ampia vittoria elettorale della coalizione, a capo delle più importanti istituzioni repubblicane, fatto salvo Mattarella, tutti uomini di destra, come Lorenzo Fontana, leghista di ferro, alla guida della Camera, e Ignazio La Russa di FdI, che, dopo una lunga carriera politica, rivendicata con orgoglio, prima nel Msi e poi in An, ora è al vertice del Senato. Ed ecco le contestazioni, in alcuni casi anche piuttosto animate. E la solita richiesta ai politici di destra, dal premier in giù, di prendere, ancora una volta, le distanze dal regime fascista. La cosa va avanti da anni, ma le dichiarazioni, compresa la lettera aperta del Presidente del Consiglio pubblicata ieri sul Corriere della Sera, non sembrano mai sufficienti. Chissà quanto tempo dovrà passare dalla fine della guerra per poter fare politica a destra, nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi dello Stato, senza dover subire in continuazione esami di democraticità. Consentendo ai cittadini italiani, come avviene in tutto il mondo occidentale, di potersi dire conservatori senza affrontare ostracismi e discriminazioni di vario genere, ancora in atto nonostante la destra sia maggioranza nel Paese in modo pressoché stabile. Forse un secolo e ormai non manca molto. E, come sempre, sorge il dubbio che questo insistere sul demonizzare gli avversari sia solo un modo, in molti casi poco convinto e convincente, per compattare una sinistra in declino ed in perenne crisi d’identità. Con, però, risultati tutt’altro che scontati in un Paese stanco di guardare al passato, quando la realtà è quella di una democrazia compiuta e consolidata anche a destra – e le prove sono tante ed evidenti – e quando la realtà bussa alla porta e le esigenze concrete della politica, dell’economia e della società richiedono meno ideologismi fini a se stessi e più proposte per individuare soluzioni. Sarà anche per questo che la nuova segreteria del Partito Democratico non convince tutto il partito e non si placano le discussioni interne. Diversi esponenti progressisti non vogliono rassegnarsi ad un radicalismo, peraltro di maniera, incentrato su battaglie lontane dal mondo della produzione e del lavoro, e stanno iniziando a guardare altrove. È, ad esempio, il caso del senatore e membro del Copasir Enrico Borghi, che, proprio in queste ore, ha annunciato di voler lasciare il Pd, dove a suo dire «non c’è più spazio per i riformisti» e che è «diventato la casa di una sinistra massimalista figlia della cancel culture americana che non fa sintesi e non dialoga». Entrerà in Italia Viva, il partito guidato dall’ex segretario Renzi, e potrebbe non essere il solo.