Il 97% dei lavoratori del settore privato è coperto dalla contrattazione collettiva nazionale. Il lavoro povero in Italia è spesso riconducibile a fattori diversi, come, ad esempio, le poche ore lavorate nell’arco della settimana o del mese. Anche fissando una soglia minima per legge, non si uscirebbe da questa spirale molto negativa che contrasta con la stessa Costituzione

Le proposte di legge in materia di salario minimo legale muovono dall’evidenza di una sacca di lavoro povero nel nostro Paese, come evidenziato dall’Istat. In tempi più recenti, si è anche aggiunta una direttiva europea, volta a rafforzare e adeguare i livelli retributivi negli stati partner, con l’obiettivo di arrivare a ridurre le disuguaglianze salariali. Tale direttiva, è bene ricordare, guarda in primo luogo alla contrattazione collettiva e, soltanto nel caso in cui questa sia poco diffusa, invita i governi e i parlamenti a adottare una norma di legge. Al momento, sono 21 i Paesi dell’Unione europea che hanno fissato un salario minimo per legge (su base oraria o mensile), mentre altri sei, fra cui l’Italia, rimandano la fissazione del salario alla contrattazione collettiva. Guardando ai numeri, il nostro Paese è già in linea con le disposizioni contenute nella direttiva comunitaria. Come evidenziato dal Cnel, con riferimento al settore privato, la contrattazione collettiva viene applicata a quasi il 97% dei lavoratori. In particolare, sono circa 13,3 milioni i lavoratori, occupati in 1,4 milioni di aziende, coperti dai 201 contratti collettivi nazionali sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil, mentre la Ugl sottoscrive 85 Ccnl per poco meno di 5 milioni di addetti, distribuiti in oltre 557mila aziende. Naturalmente, in parte i Ccnl sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil si sovrappongono a quelli di Ugl. A conti fatti, i lavoratori soggetti a dumping contrattuale potrebbero essere circa 250mila.