Il lavoro italiano, tra stipendi bassi e ondata di dimissioni. Un insegnante italiano riceve a fine mese meno della metà di un suo collega tedesco. Oltre 1,6 milioni le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022 (+22%)
Da una parte si cercano con grande fatica persone sempre più qualificate, da un’altra il lavoro che c’è non soddisfa. Lo dimostrano dati come quelli sugli stipendi della Scuola: gli insegnanti italiani guadagnano meno dei colleghi dell’Ue e, a parità di titolo di studio, il loro stipendio registra comunque un divario rispetto a quello degli altri dipendenti della PA, secondo i dati pubblicati nel rapporto “Education at a Glance 2022” a cura dell’Ocse e dal rapporto semestrale Aran sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti. In Italia un docente di scuola superiore guadagna il 22% in meno rispetto a un lavoratore di un altro settore con lo stesso titolo universitario, circa 350 euro in meno al mese. Un insegnante italiano riceve a fine mese meno della metà di un suo collega tedesco. I docenti italiani della primaria sono quelli che presentano i divari più consistenti anche in termini percentuali rispetto ai colleghi europei. La differenza tra gli italiani e i colleghi europei è marcata in tutti i gradi di scuola, a partire dalle retribuzioni della primaria la cui differenza rispetto alla media degli omologhi europei è del 15,7%, ossia 6.286 dollari. La distanza tra i docenti di scuola media di primo grado scende al 14%, mentre i docenti della scuola superiore percepiscono il 12,7% in meno rispetto alla media dell’Unione. Altri segnali indicativi di un lavoro quanto meno “immaturo”, cioè incapace di dispiegare tutte le proprie potenzialità, si trovano negli ultimi dati trimestrali delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. Sono oltre 1,6 milioni le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 (1,3 milioni). Il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni, non il numero dei lavoratori coinvolti. Tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro, le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a termine, la quota più alta. In risalita anche il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco: tra gennaio e settembre 2022 sono stati circa 557mila i rapporti interrotti per decisione del datore di lavoro, contro i 379mila nei primi nove mesi del 2021, pari ad un aumento del 47% rispetto al periodo del blocco. Guardando soltanto al III trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (+35mila) sul terzo trimestre 2021.