di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL

Ulteriore conferma oggi dall’Istat che suffraga le richieste sempre più pressanti delle organizzazioni sindacali, Ugl compresa, al Governo Meloni: affrontiamo il nodo salari.
Nella recente indagine «Reddito e condizioni di vita», da osservare insieme al dato di ieri sul lavoro (a novembre -27mila occupati con tasso di inattività al 34,5%), si legge che tra il 2007 e il 2020 gli stipendi netti dei dipendenti italiani sono crollati del 10%, mentre il cuneo fiscale, pur in discesa, resta superiore al 45% nel 2020. La “rarefazione”, si potrebbe quasi definire, dei salari italiani è il prodotto di diverse cause esogene e scelte fatte da governi e imprese italiani, tra le quali, in tempi ormai remoti, va annoverata quella della moderazione salariale perseguita in vista di un recupero di competitività del sistema Paese. Arrivando ai giorni nostri, nei quali la competitività resta in non pochi ambiti una chimera, all’Italia tocca combattere, a fronte di tali bassi stipendi e di un’occupazione fragile, il caro energia e un’inflazione alta, nonché conseguire una crescita atta a contrastare un ingente debito pubblico e onorare gli impegni assunti con il Pnrr (da rivedere).
L’Istat, pur stimando che nel 2023 l’Italia avrà un’inflazione al +5,1%, dato ottimistico, non nega, e d’altronde non potrebbe farlo, che «le cose potrebbero peggiorare». Qui entra in gioco il caro energia che, come spiegato sempre dal presidente Blangiardo in un’intervista a SkyTg24, ha sull’inflazione un effetto doppio, diretto e uno indiretto. Se il caro energia andasse nella direzione di una continua crescita, la stima del 5,1% nel 2023 potrebbe essere superata al rialzo con effetti negativi soprattutto sulle famiglie meno abbienti.
Dunque, i già falcidiati stipendi italiani si trovano al momento – e in futuro – sotto un doppio attacco: da una parte, il caro energia, che dipende anche dalla presenza di possibili cartelli anti-concorrenza, contro i quali vanno assunti provvedimenti, come il Governo sembra intenzionato a fare; dall’altra, l’inflazione, contro la quale va intrapresa un’azione politica e, allo stesso tempo, economica. Occorre farsi promotori di una correzione dell’errore macroscopico rappresentato dall’aumento dei tassi di interesse, scelto dalle due principali Banche centrali, quella americana (Fed) e quella europea (Bce) per contrastare l’inflazione. Decisione che, oltre a colpire lavoratori e imprese, mette a rischio la crescita, ponendo le basi per un tunnel, non si sa quanto lungo, chiamato recessione. Tutto in economia è collegato, da un errore ne conseguono molti altri. Spezziamo almeno in Italia questa perversa catena, iniziando dai salari.