di Francesco Paolo Capone – Segretario Generale UGL

Quanti sono 5,8 milioni di italiani all’estero, rilevati quest’anno dal Rapporto Migrantes? Sono poco più degli abitanti dell’Irlanda, tanti quanti quelli della Norvegia, la metà circa del Portogallo e della Svezia. Quello che emerge, soprattutto, è che l’Italia resta sostanzialmente un Paese di emigrazione. Dall’Italia non si è mai smesso di partire e, persino negli ultimi anni di forti restrizioni agli spostamenti a causa della pandemia, il numero degli italiani ufficialmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) ha superato la popolazione degli stranieri regolarmente residenti sul nostro territorio. Ha fatto bene oggi il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al presidente della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego, a sottolineare che il fenomeno dell’emigrazione italiana, principalmente giovani e di alto livello di formazione, destinati/intenzionati a non fare più ritorno a casa, non può essere compreso all’interno della dinamica virtuosa dei processi di interconnessione mondiale. Non dipende da una libera scelta: l’occupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni è stata pari nel 2020 al 29,8% (nell’Europa a 27 al 46,4%) e con un divario rispetto agli adulti di 45-54 anni di ben 43 punti percentuali. Da rilevare anche che il 59% degli alunni stranieri delle scuole secondarie italiane vorrebbe da grande spostarsi all’estero, stessa cosa sogna “solo” il 42% dei loro compagni di scuola italiani. Sono percentuali altissime, che devono non soltanto far riflettere.
Non dobbiamo combattere solo con la bassa occupazione (i giovani occupati al Nord sono il 37,7%, al Centro il 30,6% e al Sud il 20,1%) o contro i divari di genere e territoriali (i ragazzi al Nord sono i più occupati con il 42,2%, le ragazze del Mezzogiorno non superano il 14,7%), perché, citando i dati odierni dell’Inapp, c’è anche un mercato del lavoro intrappolato dalla precarietà. Solo il 35-40% dei lavoratori atipici passa nell’arco di tre anni ad impieghi stabili, mentre nel corso degli ultimi 30 anni (1990 -2020) l’Italia è l’unico Paese ad aver registrato un calo dei salari (-2,9%) a fronte di una crescita media dei Paesi Ocse del 38,5%.
La leva per invertire questo avvitamento, a tutti gli effetti quasi mortale, è la formazione, quindi le opportunità vere, non certo le risorse impiegate e, troppo speso buttate, per l’assistenza, pur benvenuta in tempo di Covid, rappresentata dallo strumento del Reddito di Cittadinanza. Bisogna riformare radicalmente i Centri per l’impiego arricchendoli di reali percorsi di formazione e riqualificazione professionale. Occorre intervenire per ridurre il gap economico fra Nord e Sud Italia a tutela della coesione nazionale. Dobbiamo discutere con il governo di investimenti in politiche occupazionali, per riattivare il mercato del lavoro e incentivare il match tra domanda e offerta di impiego attraverso il coinvolgimento di soggetti pubblici e privati. Solo così l’Italia tornerà ad essere davvero il Paese più bello del mondo.