di Francesco Paolo Capone, Segretario Generale UGL

Difficile riassumere concetti complessi in pochi vocaboli. Il nuovo governo di destra a guida Meloni, come primo atto, a segnare il proprio perimetro ideale, ha voluto modificare la denominazione di alcuni ministeri. Iniziando così una “battaglia” non solo politica, ma anche culturale: oltre alle azioni concrete da avviare, anche una narrazione differente, perché, come diceva Nanni Moretti in un celebre film “le parole sono importanti”. Normale che un cambiamento così netto di riferimenti rispetto al consueto mainstream abbia provocato più di qualche scossone. Ad esempio la nuova designazione del ministero dell’Istruzione contiene anche la parola “merito”, introducendo così un concetto tipicamente di destra, del quale si sta discutendo molto in questi giorni. Oggi ne parla il sociologo Massimiliano Panarari in un interessante articolo su La Stampa, chiarendo quali siano le perplessità più diffuse nei confronti dell’approccio meritocratico alla formazione delle nuove generazioni. In sintesi, il timore è che questa visione possa acuire e quasi “giustificare” le diseguaglianze fra gli studenti. In realtà, e lo diciamo proprio perché consideriamo la meritocrazia uno dei nostri valori di riferimento, una visione del mondo improntata sul merito dovrebbe avere obiettivi esattamente opposti: sbloccare l’ascensore sociale e permettere ai talenti di esprimersi, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali d’origine, come recita la Costituzione all’art. 34, “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Affinché non si traduca – paradossalmente – nel suo esatto contrario, ovvero classismo ed oligarchia, baronìe e familismo, il concetto va però declinato con cautela ed interpretato in modo molto rigoroso. Una buona meritocrazia, per essere tale, deve infatti basarsi su due presupposti sui quali non transigere: da un lato reali e concrete pari opportunità, che permettano di poter esprimere appieno le proprie potenzialità a prescindere dalle condizioni di partenza, dall’altro lato un sistema inclusivo, che garantisca a tutti, e non certamente solo ai “migliori”, condizioni di vita, di studio e di lavoro più che dignitose. Non, quindi, un esasperato darwinismo sociale, ma un antidoto al blocco del cosiddetto “ascensore”, che in Italia sembra non funzionare più. Secondo il Global Social Mobility Index, l’Italia si trova al 34° posto per mobilità sociale su 82 Paesi, seguita, nell’Ue, solo da Romania e dalla Grecia. In base alle rilevazioni dell’Oecd, in Italia sarebbero necessarie almeno 5 generazioni affinché una famiglia passi dal basso reddito alla cosiddetta “classe media”. Una situazione peggiorata negli ultimi anni: secondo l’Istat, per i nati tra il 1972 ed il 1986 è più facile, rispetto alle generazioni precedenti, trovarsi in condizioni peggiori rispetto a quelle dei propri genitori, una situazione che riguarda il 26,6% delle persone in questa fascia di età. Un simile stato delle cose penalizza non solo i diretti interessati, ma la società nel suo complesso, privata di capacità e talenti che potrebbero contribuire al miglioramento del benessere complessivo. A cambiare tutto questo serve una buona cultura del merito.