Non c’è solo il caro energia a dover spaventare governo, lavoratori e imprese, almeno in Italia. Come ormai purtroppo sappiamo, la multinazionale finlandese Wartsila ha deciso di andare via, da un giorno all’altro da Trieste, per la decisione della casa madre di spostare altrove, dove è più conveniente, la produzione. Produzione assolutamente non in perdita o obsoleta, anzi. Nonostante ciò, abbandonata, senza alcun rispetto verso il governo italiano, verso le istituzioni locali e verso i sindacati. Dov’è la novità, vi starete domandando? La novità sta nella risposta che il territorio di Trieste, e non solo, sta dando a questo ennesimo, irricevibile esempio di delocalizzazione selvaggia. Tutti uniti, dal sindaco al presidente della Regione, dai sindacati alle imprese, fino alla Diocesi: tutti sentono il dovere civile di stringersi attorno ai lavoratori in via di licenziamento. Anche la politica e il governo si sono mobilitati, ma ciò non è stato sufficiente per indurre Wartsila a cambiare idea. Dal 27 agosto si è unita alla battaglia di Trieste anche Bagnoli: è infatti scattato uno sciopero a oltranza in segno di solidarietà di «tutte le maestranze delle Imprese portuali relativamente alle attività portuali (spostamento, imbarco e rizzaggio), connesse alle attività di Wartsila Italia», proclamato da Filt- Cgil, Fit-CisL, Uiltrasporti e Ugl Mare, con l’obiettivo di creare un presidio finalizzato a bloccare il trasferimento di alcuni motori prodotti nello stabilimento di Bagnoli della Val Rosandra (Trieste) della Wartsila, da consegnare alla Daewoo. Sono 12 i motori pronti e già portati nella zona dello scalo. Il blocco dovrebbe durare fino a quando, almeno, il Mise non riconvocherà il tavolo di confronto prima del 14 settembre, data in cui scatterà la procedura di licenziamento di 451 operai dell’impianto triestino. Se, nel frattempo, la nave Uhl Fusion, giunta ieri a Trieste, per caricare i 12 motori destinati alla Daewoo in Corea del Sud, ha chiesto all’Autorità portuale di operare in autoproduzione per sventare il blocco del trasferimento, quello che comunque si rischia con la chiusura dello stabilimento Wartsila di Trieste e con il blocco della sua attività produttiva è la presenza dell’intero Gruppo in Italia e con esso di tutto l’indotto. Complessivamente, si passerebbe dagli attuali 450 a futuri 1.500 lavoratori a rischio.
Quello che interessa qui sottolineare non è soltanto la necessità di una soluzione virtuosa, idonea a salvare e rilanciare un’attività che fino ad oggi ha funzionato generando profitti, ma anche la scelta di un intero territorio – e di diverse categorie – di stringersi intorno a un gruppo di lavoratori in difficoltà, avendo compreso che il loro destino è il destino di tutti. Anche in questo modo, oltre che con una seria e severa Golden Power, cioè con poteri speciali in capo al governo, si possono, si devono, sventare attuali e eventuali nuove delocalizzazioni.

di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL