di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL

Di qualche giorno fa la notizia dell’aumento esponenziale della povertà in Italia, con un numero di cittadini in stato di deprivazione triplicato in 15 anni, da 1,9 a 5,6 milioni di persone. A completare il quadro e fornire anche qualche ulteriore spiegazione sulle cause di questa povertà diffusa, alcuni dati di oggi. L’Inps ha reso noto che un terzo degli assegni pensionistici percepiti dai nostri anziani, il 32%, è inferiore ai 1000 euro, lordi, al mese. Lo stesso Istituto di Previdenza ha ulteriormente chiarito che fra i pensionati più poveri, quelli con introiti annui inferiori ai 10mila euro, solo il 15% ha un assegno sociale e solo il 26% una pensione ai superstiti. La maggioranza di questi, invece, il 60%, percepisce pensioni da lavoro, così basse per via di una vita da “working poors”, con stipendi, salari e compensi particolarmente esigui. Un’altra analisi, condotta da Milena Gabbanelli e Domenico Affinito per il Corriere della Sera, testimonia come dal 1980 ad oggi la forbice salariale fra manager e dipendenti si sia ampliata considerevolmente: se allora un amministratore delegato guadagnava in media 45 volte di più rispetto ai propri dipendenti, oggi la proporzione è di 649 a 1, con, tra l’altro e cosa non da poco, una correlazione piuttosto altalenante fra retribuzione dei manager e risultati raggiunti dagli stessi. Insomma, la forbice delle diseguaglianze continua a crescere in una società che sembra sempre più polarizzata fra pochi ricchi e molti poveri, con una classe media – quella che in un Paese civile dovrebbe essere parte maggioritaria, pilastro di stabilità economica e sociale – ormai evanescente. È necessario ribadire il bisogno di interventi urgenti volti a sanare le varie storture che ci hanno portato a questa situazione, partendo dal fisco, dal cuneo sul lavoro, ad una revisione generale della tassazione, che incentivi a produrre, lavorare, assumere nel Paese, per arrivare alle politiche industriali, all’energia, alle infrastrutture e senza dimenticare la questione delle politiche attive del lavoro e della formazione. Lo abbiamo detto molte volte e non ci stanchiamo di ripeterlo. Guardando, però, al complesso del fenomeno si osserva come oggi ci si trovi al punto – finora – più basso di una parabola nata a seguito di una concezione economico-politica ben precisa che si è diffusa, negli anni oggetto di analisi, in Italia e nel mondo occidentale: il neoliberismo, che ha puntato a competere nel mondo globalizzato comprimendo costo del lavoro e diritti sociali e privilegiando le aziende multinazionali capaci di spostare la produzione dove questi erano già meno garantiti e scegliere dove stabilire la propria sede legale in base a un vero e proprio dumping fiscale, con un “villaggio globale” apertissimo in alcuni ambiti, ma ermeticamente chiuso in altri. Un modello che non funziona, perché senza quella solidità garantita da un lavoro sicuro e ben retribuito e da aziende radicate nel contesto nazionale il risultato alla lunga è quello di un impoverimento dell’intero sistema. Ed ora c’è anche lo spettro dell’inflazione. Per invertire la rotta servono, dunque, azioni mirate, ma anche e soprattutto il profondo ripensamento di una visione che, almeno in Italia ed in Europa, non ha migliorato affatto, numeri alla mano, il benessere generale.