È singolare l’ottimismo della Bce: da una parte, in merito all’inflazione cela malamente la quasi assoluta certezza del suo aumento nel breve termine, togliendo così la speranza che, dopo settembre, non vi sarà un’altra stretta dei tassi d’interesse; da un’altra, si dichiara convinta che, nonostante la guerra stia incidendo «pesantemente» sull’economia dell’area dell’euro e le prospettive di «alto grado di incertezza», vi sono «le condizioni perché l’economia continui a crescere e segni un’ulteriore ripresa nel medio periodo».
Convinzioni che il presidente della Fed cioè della Banca centrale americana, Jerome Powell, non l’ultimo degli arrivati, ha mostrato di non condividere parlando in audizione alla commissione bancaria del Senato: «Esiste la possibilità che i nostri rialzi dei tassi d’interesse causino una recessione». Infatti, non è chiaro come sia possibile, se non puramente “in teoria”, scindere due simili sciagure. L’una, recessione, arriva quasi sempre dopo l’altra, inflazione. Quando quest’ultima supera il 5%, segue una recessione, come accaduto nel 1970, 1974, 1980, 1990 e 2008. A maggio in Italia, l’inflazione è al 6,8%. E gli stipendi? In Italia, per decenni, si è inseguita e perseguita la moderazione salariale, politica introdotta nel nostro sistema dal 1992 in poi con l’obiettivo di combattere l’inflazione, abbassare i costi di produzione e aumentare la competitività a livello internazionale delle imprese italiane, ma che poi ha finito per impoverire gli stipendi e sempre di più con l’introduzione dell’euro e poi dell’austerity. Da questa strettoia, i salari italiani non ne sono mai più usciti fuori. Nonostante anni di mercato interno fermo o quasi fermo, di tassi negativi di inflazione.
Si sperava fino a poco fa che, con la pandemia e le necessarie politiche espansive adottate dai governi occidentali e non solo per combattere le relative ripercussioni economiche, potesse essere arrivato il momento per decretare la fine dell’austerity.
Ma i falchi di Bruxelles e nel Consiglio direttivo della Bce sono tornati e sono preoccupati soprattutto dall’inflazione – nonché da una crescita eccessiva dei salari – e sostengono sia la grande sfida per tutti, addirittura assicurandoci, proprio oggi che essa ritornerà sull’obiettivo del 2% a medio termine. A quale prezzo, soprattutto sociale? È la domanda.
Magari, ed è grave pensarlo, ha ragione il presidente cinese, Xi Jinping, quando, aprendo il summit dei paesi Brics e attaccando indirettamente gli Usa, ha detto che la «politicizzazione dell’economia», attraverso le sanzioni, provoca sofferenze in tutto il mondo.

di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL