di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL

Su vari quotidiani ci si interroga su una questione della quale abbiamo parlato anche su queste pagine: la “fuga dal lavoro” dei giovani, o, per meglio dire, il rapporto che le nuove generazioni hanno con l’occupazione, con il lavoro relegato a semplice mezzo di sostentamento, non più visto come elemento di crescita non solo economica, ma anche personale all’interno della società. Oggi ne parla ampiamente il Messaggero, ma le notizie che confermano questa tendenza sono molte: non solo riguardanti i lavori precari e poco retribuiti per cui non si trova abbastanza personale, ad esempio nel settore del turismo, ma anche il pubblico impiego, con i vincitori di concorso che rinunciano al posto se assegnato al Nord. La “fuga” non riguarda tra l’altro solo i giovani, magari anche amplificata dalla presenza di un reddito di cittadinanza che è stato carente nelle politiche attive e nei controlli, ma coinvolge, in qualche modo, tutti. Ad esempio attraverso la crescente richiesta di smart working nel terziario privato: in base alle stime fornite dal ministro Orlando «circa 4,5 milioni di lavoratori continueranno in modo stabile a lavorare da remoto». Oppure con l’intenzione diffusa fra tanti occupati più in là con gli anni di andare in pensione non appena possibile. Tutti segnali della maggiore importanza attribuita da una grossa fetta di lavoratori alla sfera personale rispetto a quella professionale. Sicuramente, alla base di un simile scenario, ci sono mutamenti culturali, dovuti anche alla pandemia appena terminata. Ma non possiamo non chiederci se, accanto a ciò, ci siano ragioni ben più pratiche e concrete. Criticità che rendono molte occupazioni poco allettanti, con una bilancia tra pro e contro inclinata sul versante delle difficoltà. Problemi di spostamento, con vie e mezzi di collegamento e trasporto ancora inadeguati. Una difficile conciliazione tra oneri professionali e familiari, con poca disponibilità di servizi di assistenza pubblici, onerosità di quelli privati, orari delle città non corrispondenti a quelli lavorativi. Questioni abitative, si pensi in questo caso a coloro che, provenendo dal Centro o dal Sud, hanno rinunciato ad impieghi pubblici al Nord, non potendosi permettere, nonostante il lavoro, né l’acquisto né l’affitto di una casa nelle città settentrionali, dovendo poi anche affrontare da soli, con le famiglie lontane, tutti gli altri costi di gestione. Tutto questo non può che far comprendere che, al netto delle questioni culturali, certamente importanti, il tema, fondamentale per l’intera società, di una riconnessione profonda tra cittadinanza e lavoro, deve passare da un miglioramento dei servizi e da aumento generale di salari e stipendi, per mezzo di una revisione del sistema fiscale, unico modo capace di garantire effetti concreti. Allo stato attuale delle cose gli stipendi medi non sono più sufficienti a permettere alle persone di basare i propri progetti di vita sulla propria occupazione. Finché per l’impostazione di un’esistenza dignitosa sarà più rilevante, per molta parte dei lavoratori, la situazione di provenienza – in termini di mezzi di sostentamento, abitazione, aiuto nei compiti di cura – piuttosto che il reddito da lavoro in sé e per sé, chiaramente la scelta fra vita professionale e privata propenderà verso quest’ultima.