di Francesco Paolo Capone Segretario Generale UGL

Non sarà in vista una recessione quest’anno per l’Italia, come sostenuto dal presidente del Consiglio Mario Draghi, ma la situazione economica continua ad aggravarsi. Secondo le previsioni di primavera, rese note oggi dalla Commissione Ue, il pil italiano dovrebbe fermarsi al 2,4% nell’anno in corso, per poi scendere all’1,9% nel 2023; una netta differenza rispetto a quanto stimato nelle previsioni invernali, che indicavano una crescita del pil italiano del 4,1% nel 2022 e del 2,3% nel 2023. In ribasso anche quelle del Pil reale sia nell’UE che nell’area dell’euro: ora al 2,7% nel 2022 e al 2,3% nel 2023, mentre nelle previsioni invernali erano indicati rispettivamente al 4,0%% e al 2,8% (2,7% nell’area dell’euro). Nel frattempo, nell’area euro l’inflazione è passata dal 4,6% su base annua nell’ultimo trimestre del 2021 al 6,1% nel primo trimestre del 2022, per poi salire al 7,5% in aprile. Con un simile tasso di inflazione, – «il più alto nella storia della nostra unione monetaria» – la BCE potrebbe interrompere l’acquisto di obbligazioni e alzare i tassi di interesse da settembre 2022. Se le previsioni del Pil restano in territorio positivo, pur ridimensionate, è per l’effetto combinato delle riaperture post-lockdown e per la forte azione politica intrapresa per sostenere la crescita durante la pandemia.
Scendendo a terra e cioè alla vita quotidiana, sempre più incerta, a causa di contratti di lavoro precari, e onerosa, a causa di retribuzioni inadeguate a reggere il passo dell’inflazione, tecnicamente potremmo dire che lavoratrici e lavoratori, famiglie e con esse anche giovani e pensionati, in recessione ci sono già o ci stanno entrando. Perché, mentre in tutti i paesi dell’Ocse gli stipendi sono cresciuti, in Italia quelli lordi sono diminuiti dell’8,3% dal 2010 al 2020.
Ecco perché non smetterò mai di ripetere, come ho fatto soltanto sabato scorso, in occasione dell’evento “È l’Italia che vogliamo” organizzato dalla Lega, che serve un patto tra capitale e lavoro per tornare a crescere. Produrre è una ricchezza per il Paese, ma con un cuneo fiscale, pari al 46%, che per metà grava sulle aziende e per metà sui lavoratori, diventa impossibile in questo particolare contesto, con un conflitto lungo ed estenuante alle porte d’Europa. Un livello insostenibile e contrario a qualsiasi obiettivo di crescita, per le famiglie e per il Paese.
Ciò che serve nell’immediato è un taglio del cuneo fiscale e mettere il lavoro al centro dell’agenda politica per dare futuro al Paese. Senza dimenticare che, per un vero ed efficace patto tra capitale e lavoro, serve un cambio di paradigma nelle relazioni industriali, fondandolo sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, così come sancito nell’articolo 46 della Costituzione italiana.
. Secondo le previsioni di primavera, rese note oggi dalla Commissione Ue, il pil italiano dovrebbe fermarsi al 2,4% nell’anno in corso, per poi scendere all’1,9% nel 2023; una netta differenza rispetto a quanto stimato nelle previsioni invernali, che indicavano una crescita del pil italiano del 4,1% nel 2022 e del 2,3% nel 2023. In ribasso anche quelle del Pil reale sia nell’UE che nell’area dell’euro: ora al 2,7% nel 2022 e al 2,3% nel 2023, mentre nelle previsioni invernali erano indicati rispettivamente al 4,0%% e al 2,8% (2,7% nell’area dell’euro). Nel frattempo, nell’area euro l’inflazione è passata dal 4,6% su base annua nell’ultimo trimestre del 2021 al 6,1% nel primo trimestre del 2022, per poi salire al 7,5% in aprile. Con un simile tasso di inflazione, – «il più alto nella storia della nostra unione monetaria» – la BCE potrebbe interrompere l’acquisto di obbligazioni e alzare i tassi di interesse da settembre 2022. Se le previsioni del Pil restano in territorio positivo, pur ridimensionate, è per l’effetto combinato delle riaperture post-lockdown e per la forte azione politica intrapresa per sostenere la crescita durante la pandemia.
Scendendo a terra e cioè alla vita quotidiana, sempre più incerta, a causa di contratti di lavoro precari, e onerosa, a causa di retribuzioni inadeguate a reggere il passo dell’inflazione, tecnicamente potremmo dire che lavoratrici e lavoratori, famiglie e con esse anche giovani e pensionati, in recessione ci sono già o ci stanno entrando. Perché, mentre in tutti i paesi dell’Ocse gli stipendi sono cresciuti, in Italia quelli lordi sono diminuiti dell’8,3% dal 2010 al 2020.
Ecco perché non smetterò mai di ripetere, come ho fatto soltanto sabato scorso, in occasione dell’evento “È l’Italia che vogliamo” organizzato dalla Lega, che serve un patto tra capitale e lavoro per tornare a crescere. Produrre è una ricchezza per il Paese, ma con un cuneo fiscale, pari al 46%, che per metà grava sulle aziende e per metà sui lavoratori, diventa impossibile in questo particolare contesto, con un conflitto lungo ed estenuante alle porte d’Europa. Un livello insostenibile e contrario a qualsiasi obiettivo di crescita, per le famiglie e per il Paese.
Ciò che serve nell’immediato è un taglio del cuneo fiscale e mettere il lavoro al centro dell’agenda politica per dare futuro al Paese. Senza dimenticare che, per un vero ed efficace patto tra capitale e lavoro, serve un cambio di paradigma nelle relazioni industriali, fondandolo sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, così come sancito nell’articolo 46 della Costituzione italiana.