di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL

Purtroppo, c’è voluta una pandemia per comprendere l’importanza della presenza dello Stato e di uno Stato efficiente. Fa un certo effetto ascoltare oggi il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, parlare di «rivoluzione in atto», perché è in arrivo il contratto di lavoro per i dipendenti pubblici di Ministeri, Agenzie fiscali ed Enti non economici. Vale la pena ricordare, infatti, che il contratto di lavoro dei dipendenti pubblici è rimasto fermo per quasi dieci anni, dal 2009 al 2017, riavviato molto timidamente negli anni successivi attraverso rinnovi contrattuali assolutamente ridicoli, mentre oggi si prevede un aumento fino a 117 euro lordi per la fascia degli assistenti amministrativi e il riconoscimento degli arretrati medi. Non solo, si assegna una parte fondamentale alla formazione. Quest’ultima, per noi dell’UGL, è da sempre considerata la chiave di volta non solo per un efficientamento della macchina burocratica, ma anche per riattivare l’occupazione, alla luce dell’evoluzione degli attuali modelli di lavoro.
Sempre “grazie” alla pandemia si è compresa l’importanza della Sanità pubblica, la quale, a sua volta, ha subito anni di tagli indecorosi di spesa e un fermo più che decennale del rinnovo degli stipendi di lavoratrici e lavoratori che fanno un lavoro essenziale, spesso in condizioni vicine al disumano, per la salute pubblica.
Ma serve ancora qualcosa in più da parte dello Stato, soprattutto quando è presente nel capitale sociale delle imprese o è parte integrante di importanti accordi industriali.
Bisogna evitare – e soprattutto risolvere – casi come quello del call center della nuova compagnia di bandiera, Ita, interamente partecipata dallo Stato, che, ignorando volutamente l’applicazione della clausola sociale che tutela i lavoratori nei cambi di appalto, ha di fatto portato al licenziamento dei 543 lavoratori, tutti a Palermo, dell’ex call center Alitalia. Oppure quello dell’ex Ilva di Taranto, oggi Acciaierie d’Italia, di cui il Governo detiene il 38% del capitale sociale e il 50% dei diritti di voto, per la quale i sindacati sono stati costretti a scioperare la settimana scorsa, perché il socio franco indiano, Arcerlormittal, fa lavorare la fabbrica al di sotto delle proprie possibilità, mette in cassa integrazione circa 3000 lavoratori e chiede anche uno sconto al Governo italiano sul prezzo finale di acquisto e sul canone di affitto. Per non parlare di Whirlpool che, non contenta di aver chiuso la fabbrica di Napoli, non solo non rispetta gli accordi sottoscritti con Governo e sindacati, ma annuncia anche una ‘revisione strategica’ nell’area Europa, scelta che fa temere per le fabbriche italiane.