I lavoratori, a larghissima maggioranza, giudicano la propria paga non adeguata all’inflazione

Il lavoro cambia, ma non sempre in meglio. È questo il filo conduttore del secondo capitolo del Rapporto Censis-Ugl presentato lo scorso 30 aprile. Il lavoro è fatto di diverse componenti. Una di queste è rappresentata dalla retribuzione, anche al netto di altri aspetti come la soddisfazione e il piacere di svolgere una determinata attività. In passato, il lavoro, anche quello più umile, ha rappresentato una formidabile leva per la mobilità sociale, cosa che valeva sia per il dipendente che per il lavoratore autonomo. Ad un certo punto, però, questa dinamica si è invertita. Con il blocco sostanziale delle retribuzioni, si è alimentata così la svalorizzazione del lavoro. Ciò è accaduto anche in termini macro, con «il lavoro che si è visto riconoscere quote via via inferiori di reddito complessivo». La conseguenza diretta è che nel nostro Paese, fra il 2010 e il 2020, le retribuzioni lorde sono diminuite dell’8,3%; peggio hanno fatto soltanto la Grecia e, seppure di poco, la Spagna. Conseguentemente, «non sorprende che il 64,3% dei lavoratori valuta la propria retribuzione come non adeguata al costo della vita, ed è il 68,8% tra operai e lavoratori esecutivi». La media, però, non ci racconta tutta la realtà, in quanto sulla retribuzione impattano fattori come l’età, il genere, il territorio. Un punto di ulteriore riflessione è dato dalla presenza di 1,8 milioni di lavoratori poveri, sui quali pesa in maniera decisiva il fenomeno del part time involontario: poche ore, retribuzione ridotta