di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL

«Possiamo investire cinque miliardi nelle politiche attive del lavoro e poi avere contratti che prevedono tre ore di lavoro settimanali e part time involontari?». Non se lo è chiesto un sindacalista, ma il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ieri in occasione di un convegno al Senato sull’empowerment femminile e la necessità di sostenere l’occupazione delle donne dopo il doppio shock dovuto alla pandemia e alla guerra in Ucraina. Si tratta di una domanda, per un sindacalista, che non nasce da oggi o, comunque, non soltanto a fronte della varietà di contratti esistenti, quanto dell’applicazione corretta dei contratti di lavoro, evitando appunto quella surrettizia, e alla luce di dati che negli anni hanno visto crescere la flessibilità-precarietà. I dati Inps del 2021 sul lavoro privato rilevano infatti che il saldo positivo, tra attivazioni e cessazioni, pari a 691.702 contratti, vede i rapporti a tempo indeterminato pari a 119.148 unità, mentre le altre tipologie complessivamente segnano un più 572.554, tra contratti a tempo determinato (+ 346.205), contratti di lavoro intermittente (+78.546) e in somministrazione (+ 65.173).
Nei durissimi anni segnati dalle diverse riforme del Lavoro che in Italia si sono succedute, il sindacato, UGL compresa, ha segnalato a Governi di “diverso colore” che il rischio più grande conseguente alla crescente ondata di flessibilità sarebbe stata appunto la precarietà, con riverberi evidenti sul mercato interno. I fatti ci hanno dato ragione sia perché la più famosa riforma del lavoro, precedente alla Fornero, e cioè la legge Biagi non fu mai completata nella parte fondamentale, che avrebbe evitato la trasformazione della flessibilità in precarietà, ovvero le politiche attive del lavoro sia perché urgeva mettere l’Italia al passo con le principali economie europee e extraeuropee. Ben venga, dunque, la domanda posta dal ministro del Lavoro, insieme ad altre sue considerazioni. Come la seguente: «In nome della flessibilità si sono create forme di utilizzo del lavoro che ormai sono arrivate a livelli tra i più alti in Europa. Questo dopo essere stati un Paese spesso rimproverato per avere un mercato del lavoro eccessivamente rigido. È un punto che credo ci dobbiamo porre perché anche in questo caso il prezzo più alto lo pagano le donne». È un prezzo che pagano le donne, le famiglie, il Paese in termini di stabilità e il mercato interno in termini di prosperità, soprattutto a fronte di un livello di inflazione sempre più preoccupante. Magari avremmo potuto farle prima certe riflessioni, ancora prima della pandemia e del conflitto in Ucraina. Ma, come si dice, meglio tardi che mai.