di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale Ugl

Il fenomeno della «fuga dal lavoro», nato dopo la pandemia e diffusosi in tanta parte del mondo Occidentale, in Italia finora ha attecchito meno. Anche a causa della già presente alta percentuale di inattivi, il 35% del totale delle persone in età lavorativa, dato che aumenta ulteriormente tra le donne, fra le quali sale ad oltre il 44%. Eppure la «great resignation», così l’hanno definita gli americani, dove invece il problema è già piuttosto consistente, si sta facendo largo anche da noi. Le motivazioni derivano dagli effetti, anche psicologici, della crisi Covid, che ha portato i lavoratori a riconsiderare, alla luce del nuovo rapporto fra rischi sanitari e benefici economici, l’opportunità di mantenere o meno la propria occupazione, decidendo in molti casi che non ne vale più, tutto sommato, la pena. La quarta edizione del report «Welfare for people», promosso da Intesa Sanpaolo in collaborazione con Adapt, di cui si parla nell’edizione odierna di Italia Oggi Sette, ha individuato nel welfare aziendale uno strumento adatto ad invertire questa tendenza. Non solo, quindi, i pur fondamentali fattori economici, ma soprattutto una vita lavorativa all’insegna di un maggiore benessere è ciò che cercano oggi le perone nella ricerca e nel mantenimento di un posto di lavoro. In cosa consiste, nel concreto, il welfare aziendale? Nel nostro Paese non c’è una definizione univoca e certificata, ma esistono una serie di politiche attuate nella gestione di un’impresa che possono rientrare nel concetto: dalla flessibilità organizzativa, con la gestione di orari e turni di lavoro orientata verso la conciliazione, ai mezzi di trasporto collettivo messi a disposizione dall’azienda, dalla previdenza complementare alle formule per l’assistenza sanitaria integrativa, dai nidi aziendali ai bonus per la cura e l’assistenza dei familiari dei lavoratori, che siano minorenni o persone non autosufficienti, dalle borse di studio per i figli dei lavoratori ai buoni acquisto ed alle convenzioni con ditte di vario genere, dal servizio mensa ai buoni pasto, fino all’organizzazione di attività ricreative e per il tempo libero dedicate ai dipendenti. Un insieme di attività che da un lato hanno una funzione sociale ed anche economica, andando oltre i servizi messi a disposizione dallo Stato, dall’altro consentono una riorganizzazione di tempi e modi di lavoro, anche ai fini di migliorare la produttività e fidelizzare i dipendenti nei confronti dell’impresa per la quale lavorano. Buone ed interessanti pratiche, da incentivare maggiormente. Non solo e non tanto per ridurre il numero di dimissioni – nel nostro Paese la maggioranza delle persone attualmente occupate, il 56,2%, non ha alcuna intenzione di lasciare il lavoro, dato che sale al 62,2% fra i lavoratori adulti, della fascia 35-64 anni – ma piuttosto per affrontare un altro problema piuttosto grave per l’Italia, ovvero l’insufficiente coinvolgimento della componente femminile nel mondo del lavoro, con conseguenze dal punto di vista economico ed anche demografico niente affatto trascurabili. Una nuova mentalità improntata verso il benessere in azienda dovrà essere sostenuta anche per questa ragione.