Si vorrebbero anticipare di venti anni alcuni obiettivi, già fissati al 2050. I settori interessati sono diversi, dall’agricoltura ai trasporti pesanti e leggeri, passando per l’edilizia. Preoccupano le ricadute sul lavoro, nonostante il tentativo di porre un freno alla concorrenza sleale

di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL

In tempi non sospetti, ma non senza polemiche, l’Unione europea ha lanciato la propria sfida alle economie mondiali e, prima ancora, ai singoli Paesi, in particolare quelli più grandi come gli Stati Uniti e la Cina, sul versante della mitigazione dei cambiamenti climatici. La sfida, quella di anticipare al 2030 alcuni obiettivi sulla riduzione delle emissioni della CO2, già ambiziosa quando immaginata, ora diventa ancora più complessa da raggiungere, alla luce della pandemia e, soprattutto, delle tensioni internazionali, sfociate nel tragico conflitto russo-ucraino. Fermo restando che tutti noi siamo consapevoli dell’emergenza climatica e del fatto che oggi non esiste, anche al netto delle suggestioni di Elon Musk, un Pianeta B, occorre prestare la massima attenzione agli aspetti sociali e occupazionali connessi alla questione. Si può accelerare sugli obiettivi, ma l’Europa non può e non deve farlo in splendida solitudine, quando è evidente che da altre parti del globo non si pensa minimamente a ridurre le attività maggiormente inquinanti. Una delle direttive prevede, pur con tutti i limiti derivanti dal richiamo alle norme internazionali sui commerci internazionali, una sorta di blocco nei confronti di prodotti realizzati al di fuori della Ue con modalità poco ambientalmente compatibili. Può essere una soluzione, ma rischia di non essere sufficiente a tutelare l’occupazione in settori strategici per le economie europee; si pensi, ad esempio, all’automotive e all’impatto che i provvedimenti avranno sul gruppo franco-italiano Stellantis o sulla tedesca Volkswagen. Insomma, serve una attenta valutazione che porti ad un sano bagno di realtà per evitare passi più lunghi della gamba.