di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale Ugl

Uno studio della Commissione sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa coordinata dall’economista Garnero, gruppo di esperti costituito da Orlando presso il Ministero del Lavoro, ha constatato un peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Riscontrando, dati alla mano quanto, del resto, era già ampiamente percepibile. Non basta più avere un’occupazione, come dovrebbe invece essere, per avere una vita dignitosa. I lavoratori poveri sono aumentati ed hanno raggiunto una percentuale considerevole sul totale: il 12%. Nel dettaglio, in base alle rilevazioni del team, un lavoratore su 4 in Italia ha una retribuzione più bassa del 60% della mediana ed uno su 10 è in una situazione di povertà. Eppure, solo la metà dei lavoratori poveri percepisce una prestazione di sostegno al reddito. Una situazione peggiore rispetto alla media europea, al 9,2%. Questo il problema, con i dati riferiti al 2019, era pre-virus. Tutto lascia presupporre che i numeri adesso siano in ulteriore peggioramento a causa della pandemia. Un fenomeno, quello dei cosiddetti working poors”, presente da tempo nel nostro Paese, con la crescita del lavoro precario e sottopagato. Come al solito, a farne le spese soprattutto le donne ed i giovani. Ha certamente ragione il ministro Orlando: «sul lavoro povero non si può stare senza fare niente». Una volta scattata la fotografia del problema, occorre trovare delle soluzioni. È necessario, tuttavia, che siano quelle giuste e che si dimostrino efficaci. Le categorie più a rischio povertà, a detta della stessa Commissione ministeriale, sono i lavoratori occupati solo pochi mesi all’anno o a tempo parziale, col part-time cresciuto in maniera esponenziale, i lavoratori autonomi, monoreddito e con figli a carico. Eppure le proposte del team per risolvere la situazione non sembrano intercettare sufficientemente queste categorie. Essenziale, certamente, il rispetto dei contratti. La proposta del salario minimo limitato ad alcuni settori può essere valutata, sempre ricordando, però, che nel nostro Paese non deve essere indebolito il valore della contrattazione collettiva, sistema mediante il quale i sono garantiti salari, diritti e tutele ai dipendenti, onde evitare un livellamento vero il basso, piuttosto che verso l’alto, degli stipendi. Nel complesso resta l’impressione, nelle proposte avanzate, di una percezione del mondo del lavoro ferma a qualche decennio fa: ora il problema maggiore è rappresentato dai piccoli autonomi, dalle partite Iva, vere o formali, e, soprattutto, da una tassazione sul lavoro troppo aumentata, vera origine di buona parte di queste problematiche, che impedisce di assumere, specie alle Pmi, che imbriglia molti dipendenti nella otto occupazione o nell’irregolarità, contro la quale questi provvedimenti non sono in grado di offrire risposte adeguate e vantaggiose. Così come i meccanismi di sostegno al reddito non sembrano tarati sulle reali esigenze di una cittadinanza italiana composta da anziani più garantiti e giovani – anche alla soglia dei 40 anni – spesso non economicamente autosufficienti, costretti a rimanere nel nucleo familiare d’origine, con conseguenze fiscali penalizzanti. Occorre adeguare le risposte alla realtà odierna, per fare in modo che la lotta al lavoro povero sia effettivamente rivolta ai nostri concittadini che ne hanno bisogno.