Le riforme che hanno avuto maggiore successo sono state quelle più condivise, mentre, quando l’esecutivo ha fatto da sé, come nel caso della Fornero, sono emerse conseguenze negative sia dirette che indirette, come gli esodati e l’esplosione della disoccupazione giovanile

La previdenza rappresenta, ormai da tanti anni, un tema fortemente critico e divisivo, non soltanto nel nostro Paese. Si può tranquillamente affermare che le polemiche siano iniziate subito, da quando, uno dopo l’altro, gli Stati hanno deciso di dotarsi di un evoluto sistema di tutele post lavoro, resosi necessario con la rivoluzione industriale e poi con il progressivo innalzarsi della speranza di vita, soprattutto nelle economie più avanzate. Ogni stagione ha avuto i suoi beneficiari e chi, viceversa, ha finito per rimetterci, tanto che spesso anche nello stesso Sindacato si è ragionato sulla oggettiva difficoltà che si riscontra pure solo nel difendere i diritti acquisiti. Una serie di ragioni, compresa la mancata divisione a monte fra previdenza e assistenza nel bilancio dell’Inps (sul tema, proprio in questi giorni, è intervenuta la commissione di esperti che, nella sostanza, ha alzato bandiera bianca davanti alla reiterata richiesta di distinguere le due voci), hanno favorito il continuo intervento del legislatore in materia di pensioni. Ogni volta, il governo di turno parla di riforma definitiva, salvo poi scoprire che di definitivo vi è ben poco. E così, in meno di trent’anni, si è passati dalla Dini a Quota 102, un percorso tutt’altro che equilibrato e che ha portato con sé notti insonni per milioni di nostri concittadini. Guardando al passato, però, torna un elemento: le riforme più apprezzate e durature sono state quelle che hanno visto il coinvolgimento delle parti sociali. Tutt’altro scenario, quando l’esecutivo ha deciso di fare solo, sottovalutando le conseguenze dirette e indirette connesse al provvedimento adottato. Emblematico il caso degli esodati della riforma Fornero.