di Francesco Paolo CaponeSegretario Generale UGL

Sappiamo bene tutti quanto le donne siano ancora oggi il perno intorno al quale si regge l’organizzazione, per dirne soltanto una, di un nucleo familiare e, in particolare, in quelli nei quali vi siano minori e persone non autosufficienti. Constatare, dai dati rilevati da diversi Istituti di ricerca pubblici e privati, che alle donne nel mondo del lavoro non viene ancora oggi data la possibilità di manifestare, ovviamente sotto altra forma, questa stessa capacità e forza, fino a portarle ad essere precarie e nel peggiore dei casi inattive, è quanto meno sconcertante. Sconcertante, da una parte, e impressionante, data l’evidenza dei numeri, sono l’aumento della precarietà delle donne e il gap occupazionale rispetto agli uomini, secondo quanto risulta dal Gender Policies Report elaborato dall’Inapp. Per quest’ultimo, la pandemia ha acuito le diseguaglianze di genere portando il tasso di occupazione degli uomini al 67,8% e al 49,5% quello delle donne. Non solo: se oltre il 45% dei nuovi contratti si colloca tra i 30 e i 50 anni di età senza rilevanti differenze di genere e se per entrambi, uomini e donne, prevalgono le forme contrattuali a termine, l’incidenza della precarietà e della discontinuità per le donne è maggiore, con un ruolo prevalente della piccola impresa fino a 15 dipendenti. Altra dato allarmante si trova nel nuovo rapporto di Randstad Research, che ha tracciato un profilo delle donne inattive, analizzandone le cause e immaginando il futuro possibile, con un titolo eloquentissimo “Le isole delle donne inattive”. In Italia le donne inattive tra i 30 e i 69 anni sono oltre 7 milioni, pari al 43% delle donne italiane in questa fascia d’età. Per fare un paragone, le donne che non lavorano né sono in cerca di occupazione sono il 32%, in Germania il 24% e in Svezia appena il 19%. Troppe se rapportate al numero di poco più di 20 milioni di occupati.
Dunque, siamo di fronte ad un immenso patrimonio umano, del quale, insieme a quello dei giovani, il mercato del lavoro italiano non si avvale. Una mancanza che si avverte chiaramente basti pensare alla produttività. Aggiungendo anche che incentivare l’occupazione femminile è un presupposto essenziale per lo sviluppo e la coesione sociale del Paese. Cosa fare, dunque?
Prima di tutto, sarebbe fondamentale intervenire non attraverso provvedimenti spot, che sviliscono la dignità delle lavoratrici, ma mediante misure strutturali e politiche attive volte a incentivare l’accesso al mercato del lavoro. Basta con le “mezze” misure, è arrivato il momento di mobilitare risorse senza precedenti a sostegno delle lavoratrici utilizzando una parte cospicua dei fondi del Pnrr per garantire l’impiego delle donne e rimuovere gli ostacoli all’ingresso e al rientro nel mondo del lavoro.