di Francesco Paolo Capone Segretario Generale UGL

Se non c’è riuscita Roma con la sua immortale bellezza, figuriamoci Glasgow. Il punto non è tanto lo stile diplomatico, così come indicato dal presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, secondo il quale lo scontro non porta da nessuna parte. Molto più probabilmente ciò che non convince i Paesi riottosi a procedere in fretta verso l’obiettivo “emissioni Co2 zero”, e non solo, è che gli sconvolgimenti del clima e il connesso pericolo inevitabile e imminente per l’intero pianeta vengono usati più come clava dall’Occidente, che come autentico allarme per la salvezza della Terra. Come clava, si intende, nella competizione sui mercati, diventata più agguerrita all’indomani della crisi economica provocata dalle misure utilizzate per ancora contrastare l’epidemia da covid-19. È così da decenni, no da oggi.  Lo sanno bene i lavoratori e le aziende italiane, in molti settori, a cominciare da quello più strategico, la siderurgia. Narendra Modi, il premier indiano, ha scelto l’intervento alla Cop26 di Glasgow, e si può anche facilmente intuire il perché l’ha preferita a Roma, per indicare, finalmente, la data entro la quale l’India, terzo inquinatore del mondo dopo Cina e Usa, è disposta ad azzerare le emissioni di gas serra: neutralità climatica solo nel 2070. Cioè dieci anni dopo le già “ritardatarie” Cina e Russia, venti anni dopo Ue e Usa che hanno indicato il 2050, ma senza poterlo inserire nel documento finale del G20. Come spiegato dallo stesso Modi, ma anche dal ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, il taglio delle emissioni di CO2 va coniugato con le loro esigenze di sviluppo. Le promesse di ingenti risorse, il pathos sull’inevitabile dramma climatico che si scatenerà in assenza di efficaci e veloci decisioni, le risibili scuse del presidente Biden per le scelte fatte dall’ex presidente Donald Trump, le metafore utilizzate per far comprendere la straordinarietà del momento, come «guerra» o «fine del pianeta», non hanno convinto appunto i più inquinanti. Ad essere onesti, all’inquinamento prodotto dalle tigri asiatiche, ad esempio, hanno contribuite anche molte aziende occidentali che hanno preferito spostare le attività in queste lontane zone del pianeta perché convenienti in termini di costi e di regole, a partire da quello del lavoro fino ad arrivare alle materie prime, passando per la tassazione fino ad arrivare alle regole che alla sicurezza delle persone e dell’ambiente. Risultato, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha criticato gli Usa per l’inquinamento del passato: le sue emissioni storiche sono 8 volte superiori quella della Cina. I leader mondiali concluderanno oggi il summit Cop26 molto probabilmente con una dichiarazione nella quale si impegnano a porre fine alla deforestazione entro il 2030 pari ad investimento da 19,2 miliardi di dollari. Qualcosa in effetti è cambiato: prima ci si nascondeva dietro ad un dito, oggi ci si nasconde dietro ad un albero.